Nell'età contemporanea la Calabria è testimone di ritualità e commemorazioni ancora antiche e radicate nel territorio, talvolta manifestazioni di miti arcaici e di credenze necrofobiche, analizzate dai più illustri antropologi e storici quali Di Nola, De Martino o Pitrè.
Come in altre culture prima analizzate, anche qui riscontriamo la particolarità delle nenie funebri di matrice agro-pastorale, la cui finalità è esorcizzare la paura della morte e del distacco dal defunto, a cui si chiede una qualche forma di "riscontro" (ricordiamoci che i defunti, sono sempre un po' "permalosi" :) ). Queste nenie seguono una musicalità precisa e una gestualità corporea molto pronunciata: è attraverso il lamento funebre e la gestualità stessa che i dolenti vengono aiutati nel lavoro del lutto, rendendo più sopportabile attraverso la ritualità, l'agonia della morte. In realtà, da quasi 40 anni non vengono più utilizzate le lamentatrici funebri professioniste ("cianciaturi delli Jarbi"), altresì ritroviamo delle figure di donne, dette "mediatrici" la cui presenza si concretizzava nei casi in cui il decesso non avveniva e la malattia, dunque, era restia a lasciare il corpo del morente. Queste mediatrici, le cui testimonianze appaiono nei testi di diversi antropologi, erano vere e proprie "sacerdotesse della morte". Nei diversi articoli che ho potuto affrontare, risulta esservi spesso una buona dose di omertà da parte della popolazione più anziana quando viene chiesto qualcosa che vada più in profondità, quando si parla di queste figure capaci di aiutare nell'ultimo passo il moribondo, nonostante riconoscano le diverse forme di "cura pietosa" attuata da figure emblematiche nonostante la condanna da parte della Chiesa Cattolica verso qualsivoglia forma di eutanasia.
Nel periodo del "focu mortu" dunque, il focolare domestico veniva spento e spente anche le relazioni sociali.
Immagine presa dal web. Veglia funebre in ambiente domestico.
"Giunto il momento del redde rationem, la donna più prossima al malato in linea parentale raccoglieva lo spirito del defunto con un bacio e gli chiudeva gli occhi con un fazzoletto bianco: il sacrestano poteva finalmente suonare la “spirata”(6), mentre il cadavere veniva sistemato nella bara col rasoio per la barba, una paratura di calze, la coroncina del Rosario, il libricino delle massime eterne, gli oggetti d’affezione dell’ iconografia locale e, in qualche caso, con una moneta nascosta in una tasca del vestito. Si perpetuava così, seppur con scarsa o nessuna consapevolezza, l’arcaica tradizione del pagamento metaforico dell’obolo a Caronte, per il traghettamento nel regno dell’eternità e della verità, da dove “nessunu è mmai tornatu”.
La stessa preparazione della salma, la vestizione e toeletta, erano a cura dei familiari, tradizione che oggi è stata via via perduta dalle generazioni più giovani.
Curiosità
Fino a circa vent'anni fa dopo la sepoltura a terra, ai dolenti veniva garantito il "cunsulu", la colazione, il pranzo e la cena per sostenere i dolenti.
©Grief_and_the_Maiden
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