giovedì 24 settembre 2020

Tradizione funebre in Umbria

L'antico e profondo legame che i nostri avi avevano con la morte ci insegna molto in merito alla naturalezza attraverso cui lo stesso lutto era affrontato e vissuto.
Fase liminale in cui tutti i dolenti erano coinvolti, era imprescindibile al fine di comprendere e gestire il dolore, attraverso semplici regole legate all'abito e alle gestualità.
Il vestirsi di nero rendeva pubblico uno status, una sorta di monito alla comunità: "sono in nero, sono in lutto, non toccarmi", che comportava l'isolamento dalla vita sociale e da ogni qualsivoglia forma di contatto con gli altri.
Le vedove, ad esempio, tenevano per un tempo molto lungo la porta di casa socchiusa, e le era permesso di uscire - solo dopo il trigesimo - solamente per recarsi al cimitero o in chiesa, nulla più.
Gli uomini invece, seguivano dettami decisamente diversi come il non rasarsi (richiamando la condizione del defunto stesso), l'indossare il cappello nero e/o una fascia nera sulla manica della giacca ed un bottone, sempre nero, in segno di lutto.

La visione contemporanea ci spinge ad auspicare una morte improvvisa, preferibilmente nel sonno, così da evitare potenziali ed ipotetiche sofferenze legate al nostro decesso. 
In verità questo tipo di dipartita era fortemente - nell'immaginario collettivo più antico - definita angosciante ed ingiusta, poichè andava contro il principio di una buona morte legata ad una preparazione lunga e consapevole nei confronti del proprio decesso.
Una morte improvvisa avrebbe negato un ultimo saluto circondati dai propri cari, da parole di conforto e carezze sino all'ultimo respiro.
Una morte improvvisa avrebbe significato morire in solitudine e senza possibilità di un ultimo scambio, portando con sè le ultime volontà non espresse.
La preparazione alla morte consisteva anche nel..mettere da parte una scatola apposita per questo "grande evento", dove riporre calze nere, un velo nero, un rosario ed una croce, la biancheria intima adatta ed un abito nero di tessuto pesante, preferibilmente in seta.
La donna si prendeva cura del proprio corredo e di quello del consorte: l'abito più bello, una camicia bianca, un rosario, calze e cravatta rigorosamente neri. 
Non era altresì raro riporre del denaro in questo scatolone, per garantirsi un degno funerale e sepoltura.
Spesso abbiamo visto come il cibo sia - in determinate feste e date - il "ponte" per ricongiungersi con i propri defunti.
In questa bella Regione (si, proprio quella dei Baci Perugina!), troviamo la tradizione delle "fave dei morti", altresì conosciute come "ossicini dei morti", dalle origini molto antiche e di cui diversi esemplari sono stati trovati nelle sepolture etrusche.
In passato vi era la credenza per la quale le fave custodissero le anime dei propri cari e, per incentivarne un ritorno, vi era l'usanza di lasciarne su un piatto al di fuori dei balconi, nel caso i propri defunti avessero un languorino!
Gira in rete anche la ricetta per ricreare questi dolcetti (albume, farina di mandorle dolci o essenza di mandorla. Si, tutto qua).





lunedì 1 giugno 2020

La morte nell'età Contemporanea.

Nel XIX secolo, l'emozione scaturita dal dolore della morte, propone nuove forme di espressione del cordoglio: i dolenti gesticolano, pregano, urlano e piangono, vi è un'intolleranza nei confronti dellaperdita che prima non c'era e dunque un nuovo rapporto tra il dolente e il morente.

Se prima era il testamento il mezzo attraverso cui esprimere le proprie volontà (un testamento ben diverso da quello odierno incentrato per lo più su un eredità) i propri pensieri e la propria fede religiosa, nella seconda metà del XVIII secolo avviene un cambiamento legato alle pratiche testamentarie dell'Occidente cristiano, ovvero, un testamento totalmente laicizzato, a causa dei cambiamenti intrinsechi dei rapporti familiari, con nuove forme relative all'affetto e al sentimento umano. Dunque il ruolo dei dolenti e degli astanti viene a mutare, non più figure passive e silenziose ma con consuetudini e abiti precisi e ritualizzati.
Dalla fine del Medioevo al XVIII secolo, i dolenti si vedono costretti a manifestare un lutto, per almeno un po' di tempo, ed un dolore che non sempre sentiva. La funzione del lutto aveva ed ha tutt'oggi la capacità di difendere i dolenti dagli eccessi del proprio cordoglio, attraverso l'imposizione di un determinato schema di vita sociale, basti pensare alle visite in abitazione da parte di parenti, amici e conoscenti, in tal modo senza far sfociare il dolore in qualcosa di più estremo e senza ritorno.
Dal XIX secolo, la sottile linea che si preoccupava di non fare andare "oltre" questo dolore, si spezza: il dolore si ostenta: si urla, si piange, si sviene (ricordiamoci la Taranta del Sud Italia, ad esempio). E' il secolo i cui lutti vengono definiti "isterici". Insomma, i dolenti accettano con maggiore fatica il distacco dal proprio caro, in cui si fa evidente che la morte dell'Altro significativo è ben peggiore della paura della propria morte.
In questi termini, dunque, vediamo la genesi dei nostri attuali modi di vivere il cordoglio, secondo un'ottica per la quale un sentimento nuovo, più doloroso, determina una preoccupazione da parte dei dolenti molto profonda. Ora i parenti sentono il proprio diritto di commemorare i propri morti e di poterli andare a trovare in luoghi a loro dedicati: la concessione di sepoltura è venuta a delinearsi quale peculiare forma di proprietà, un possesso perpetuo, dove il ricordo viene gelosamente custodito conferendo al defunto una sorta di immortalità.


Cimitero ebraico, Praga. Foto mia del 2008.

Ecco dunque il culto della memoria, a travolgere la società in una nuova forma di sensibilità: i cimiteri del XVIII e i loro progettisti risultano sempre più simili a parchi dove le famiglie possano sostare vicino al loro caro, e la "città dei morti", immagine atemporale della città dei viventi, riprende quel posto che aveva in qualche modo perduto agli albori del Medioevo.

Il culto dei morti, l'importanza del loro ricordo risulta ad oggi una forma importante nell'espressività del patriottismo: basti pensare ai monumenti dedicati al Primo conflitto mondiale in Francia, monumenti che anche qui in Italia rispecchiano la necessità di ricordare la Vittoria che, seppur vuoti e non vere e proprie tombe, perpetuano comunque la memoria.
Alla fine della Grande Guerra, l'arte funeraria e i cimiteri vedono una rivoluzione dal gusto squisitamente barocco: il Cimitero di Genova in Italia, le forme ottocentesche dei cimiteri francesi, le statue monumentali che sembra abbiano vita propria nel loro maestoso mostrarsi ai visitatori, immortalati in abbracci di pietra, in grida mute e agitazioni statiche.
Non dobbiamo dimenticarci che tutto questo risalto e commozione per il culto dei morti, ha una matrice positivista e non cristiana, nonostante i cattolici vi abbiano in seguito aderito e assimilato tanto da renderlo proprio.
Sarà con il XX secolo che entreremo nel vivo della pornografia della morte, di cui oggi siamo più che mai testimoni, secondo cui la morte è a noi proibita.


©Grief_and_the_Maiden


domenica 24 maggio 2020

Parte III. Verso la Pornography of Death

Già dalla metà del XIX secolo, abbiamo visto una rivoluzione nel pensiero legato alla memoria e al culto dei defunti, nell'incapacità di accettare il distacco come risultava più naturale nelle precedenti epoche.
Un fattore inizia ad essere determinante, ovvero che la verità, soprattutto nei confronti del morente e nella sua malattia, inizia ad essere un problema.
La "congiura del silenzio" nei suoi confronti è un fatto che nella contemporaneità ancora permane, al fine di risparmiare (a noi, più che altro, ma questo è un altro discorso) il sentimento di pena al malato, anche se in tal modo gli togliamo il diritto di sapere cosa stia avvenendo a lui. Per l'appunto, in età moderna si comincia a non voler turbare in realtà la società nel suo complesso nel grande evento della morte e delle sue conseguenze. La nostra è la società della felicità, a cui sicuramente la situazione emergenziale attuale, legata al Covid-19, ha ridefinito i limiti, ma di base è una società del "benessere", almeno per quanto concerne la società Occidentale agiata.
La presenza della morte, in tutto questo, è scomoda e non deve trovare spazio: tutto deve rispecchiare una felicità, seppure sforzata, e l'evidenza del tutto via via torna dietro le quinte. Tra gli anni '30 e '50 del secolo scorso, questa situazione volge al suo esasperato apice allorquando anche il luogo in cui si muore viene a cambiare: non si muore più in casa, ma in ospedale, dove la malattia (e di conseguenza, la morte) viene nascosta, viene accartocciata nell'angolo della società dove il corpo, stanco e vecchio, non può "infastidire" una società giovane legata al culto di un corpo sempre tonico e prestante, soprattutto dal punto di vista produttivo. Il punto è, ed è la questione fondamentale, che si muore da soli, lasciati a sè stessi e lontani dagli affetti e dal supporto sociale e familiare.


Il significato della morte, della sua attesa, della sua concretezza viene perciò a mutare con l'avvento dell'ospedalizzazione della malattia, per cui il morente viene a morire senza "disturbare" l'equilibrio intorno a lui (o, perlomeno, una morte ospedalizzata comunque ha effetti sull'elaborazione del lutto da parte dei familiari, in cui spesso si riscontra un senso di colpa). In realtà, i dolenti sono a loro volta coinvolti nell'impossibilità di esternare il proprio dolore e stato di malessere: non si deve piangere, non si deve apparire tristi, non si deve rischiare di stravolgere gli equilibri felici della società, e tutto ciò che si può fare è esternare il proprio dolore nel privato e, possibilmente, in silenzio, lontani da orecchie indiscrete. Dobbiamo essere, nell'immediato, prestanti, attivi, tornare a lavoro senza esternare nulla, "come se nulla fosse successo".

La repressione del dolore, dunque, ha diversi risvolti sul benessere psico-fisico del dolente: il trauma che si viene a creare determina a sua volta un'elaborazione del lutto non genuina o benefica, per tornare alla normalità e attivare i meccanismi di resilienza.
Eccoci finalmente alle Teorie di Geoffrey Gorer e della sua pornografia della morte: "la morte è divenuta un tabù [...], i bambini oggi sono iniziati dalla più tenera età alla fisiologia dell'amore, ma, quando non vedono più il nonno e se ne stupiscono, gli si dice che riposa in un bel giardino in mezzo ai fiori" (Gorer, J., The pornography of Death, 1955).

Nel 1900, infatti, cominciamo a vedere, perlomeno negli Stati Uniti, la pratica dell'imbalsamazione, già in uso nel 1800 ma non molto diffusa, è una pratica che l'Europa aveva in qualche modo abbandonato nel XIX secolo, dove sono gli Stati Uniti a detenere il primato di preparazione del corpo per conservarlo temporaneamente al fine di allungarne l'apparenza vitale. Non è un rifiuto della morte e del suo impatto, c'è un che di geniale, dietro a questa scelta: la morte, per essere venduta, deve essere attraente, sostiene Ariès.
La Morte, va da sé, è divenuta "non più un periodo necessario, di cui la società impone il rispetto, ma uno stato morboso che bisogna curare, abbreviare, cancellare" (Ariès, 1975).

sabato 16 maggio 2020

La tradizione funebre in Abruzzo

Ogni Regione italiana propone rituali e prassi che talvolta sono riscontrabili altrove, discostandosi talvolta per particolari impercettibili.
Andando a studiare le pratiche abruzzesi troveremo tratti ibridi tra tradizione e folklore, ancora oggi molto sentiti, dove il legame con i defunti fa perno su antichissime credenze.
Una tradizione  è quella legata all'accensione dei ceri nell'evento di Ognissanti, i quali venivano riposti sui balconi, sugli altari e altresì sugli ossari affinchè le anime dei defunti lasciassero le dimore e vagassero per le strade dei paesi, come in processione.

Le luminarie infatti, permettevano ai defunti di riconoscere le loro antiche dimore: in base a ciò che viene descritto da racconti popolari, le ossa venivano conservati con cura poichè il giorno del Giudizio universale si...sarebbero ricomposti!
Sempre secondo queste credenze, le processioni dei defunti (le "Scurnacchiere"), seguivano un preciso schema: ognuno portava tra le mani un lumino acceso e dunque, in cima alla fila, comparivano i nati morti, seguiti dai piccoli che morivano subito dopo il battesimo, gli adolescenti prematuramente deceduti e in conclusione i più anziani.
Lo stesso nome di queste processioni deriva da "curnacchia": ancora oggi troviamo infatti questo accostamento (quando sentiamo gracchiare un corvo) all'immaginario della morte come presagio nefasto.

Non in tutti i paesi, ma in molti, vige ancora l'usanza il 2 novembre di riporre delle calze sui caminetti raccontando ai bambini che i doni (dolciumi e leccornie) lasciati li dentro fossero da parte dei familiari defunti.
Trovo molto bella la tradizione della "sera del ritorno", dove la tavola viene preparata appositamente per i propri defunti con un po' di cibo e del buon vino, sempre con un cerino acceso.
Nelle abitazioni abruzzesi, in presenza di un moribondo, è ancora praticata l'usanza di aprire le finestre affinchè la sua anima possa uscire, altresì riporre nel feretro i suoi oggetti personali ed una moneta nel taschino per pagare il suo ultimo viaggio.

Foto dal web.
Ritroviamo qui una figura ben nota, la lamentatrice funebre con i suoi canti rituali, come il lamento delle Vedove (soprattutto a Scanno e a Vasto) dai differenti nomi: repòte, arpetà, plasmi.

giovedì 14 maggio 2020

..Il viaggio continua.

Dall'XI-XII secolo avvengono tutta una serie di stravolgimenti, seppur impercettibili, in merito ad una visione più individualistica della morte e una maggiore concentrazione alla particolarità dell'individuo.
Dalla forte idea di un destino collettivo, si è giunti all'eliminazione di un'ispirazione apocalittica  cui subentra l'evocazione del giudizio universale, quale vera e propria corte di giustizia.
Ogni individuo è, cioè, giudicato in base ha ciò che ha compiuto in vita, le sue cattive e buone azioni vengono soppesate sulla bilancia del Giudizio.

Nelle iconografie dell'artes moriendi del XV e del XVI secolo troviamo numerose testimonianze e consigli del "morir bene", dove il morente sì giace sul proprio letto, ma..appare a lui uno spettacolo che ad egli solo è dedicato, dove esseri sovrannaturali invadono la stanza da letto: vi presenziano la Vergine, la Trinità e tutta la corte celeste, altresì vi troviamo Satana e i suoi demoni, in una sorta di lotta cosmica dove il moribondo deve superare un'ultima tentazione. Se sarà in grado di respingere la tentazione, i suoi peccati verranno debellati o, se cederà, verranno annullate tutte le sue buone azioni. Il giudizio appare dunque individuale e la morte genera un rapporto sempre più stretto con la biografia individuale. Sino alla fine del Medioevo, la solennità legata al rito della morte prenderà un carattere drammatico che prima non esisteva, tenendo conto, inoltre, degli effetti della Controriforma per cui si lotterà contro la credenza secondo la quale una buona morte riscattava gli errori di tutta una vita ( e non era quindi necessario che ci si desse un gran da fare per vivere in modo retto ed onesto.



Sempre più spesso inizia a svelarsi la figura del cadavere nelle opere d'arte e nella letteratura, soprattutto nelle decorazioni parietali di chiese e cimiteri (chi di voi non conosce la Danza Macabra?) e nei manoscritti del XV (mentre se ne hanno minime prove nei secoli XIV-XVI) e molto rara nell'arte funeraria vera e propria.
Solo dal XVII secolo, infatti, teschi e scheletri (non l'immagine di un corpo decomposto) prenderanno spazio non solo sulle tombe, ma anche all'interno delle abitazioni (in realtà, una visione più volgare degli oggetti macabri, prenderà un differente significato verso la fine del XVI secolo).
Nella poesia del XV e del XVI secolo, troviamo un orrore verso la morte fisica e la decomposizione ed altresì alla sfera della vecchiaia e della malattia (quindi intra vitam e non solo post mortem). 
Ricorda un po' ciò che oggi sta accadendo: la decomposizione è il segno del fallimento della società industriale. Un sentimento che nelle società tradizionali non era assolutamente sentito: l'uomo medievale aveva un'acuta consapevolezza di essere un morto che camminava: "la morte, sempre presente dentro di lui, infrangeva le sue ambizioni, ne avvelenava i piaceri". Rispetto all'età contemporanea, dove la vita si vede allungata grazie a migliori condizioni igienico-sanitarie e al progresso della medicina, egli nutriva una passione vitale che noi non possiamo comprendere.

La Danza Macabra di Pinzolo - YouTube

La nuova concezione di morte porta con sé una rivoluzione nell'ambito delle sepolture, che qui brevemente elencherò. Le tombe troveranno uno spazio sempre più individualizzato, ben diversamente dalle sepolture coatte sotto il suolo delle chiese.
Facciamo un piccolo passo indietro: nell'antica Roma, le sepolture erano individualizzate e contrassegnate da iscrizioni (si pensi agli epitaffi, talvolta divertenti ma saggi) nei propri loculus, numerose sino all'inizio dell'epoca cristiana. Verso il V secolo tendono a diradare sino a scomparire: dai sarcofagi di pietra dove spesso ritroviamo i ritratti del defunto, alle sepolture totalmente anonime.
Dal XII secolo ricompaiono le iscrizioni funerarie scomparse per quasi 800 anni e, altresì, le tombe di personalità illustri (santi o similari), che dal XVIII secolo in poi diverranno sempre più frequenti. Ricompare l'iscrizione e, dunque, ricompare un'effigie.
Nel XIV secolo compare dunque una forma nuova e tutta particolare, quella delle maschere funerarie direttamente prese dal volto del defunto, verso un sempre maggiore ritratto realistico e personalizzazione. 

In sintesi, si può confermare che l'uomo del primo Medioevo vivesse una sorta di rassegnazione all'idea collettiva di mortalità ma, dalla metà del Medioevo in avanti, la visione occidentale scopre e riconosce la morte del .

                                                                   ©Grief_and_the_Maiden


sabato 2 maggio 2020

Il cimitero di San Michele in Isola - Venezia

Venezia si sa, è una città magica.
Almeno un paio di volte all'anno sono solita farvi visita: nonostante sia cambiata in tutti questi anni, rimane sempre antica, con le sue botteghe, i suoi negozi di maschere e souvenir, con le sue stradine strette e fresche, dove spesso ci sono le serrande chiuse, meta affezionata di piccioni e immondizie varie.
Ne ho sempre detestato il caos, soprattutto a Carnevale, ma ci ho dovuto fare l'abitudine pur di fare delle foto decenti alle maschere che più mi piacessero.
Eh sì, Venezia è proprio unica. I suoi musei, le sue leggende e, ovviamente..il suo cimitero, San Michele in Isola.
Per giungerci, ci si deve far trasportare dal traghetto (si, sembra proprio di essere trasportati da un Caronte veneziano, ma sarà solo la mia fantasia).
E quando arrivi, metti di nuovo i piedi sulla terra.
Fino agli anni '50 del '900 vi si accedeva, il 1° novembre di ogni anno, tramite un ponte fatto con delle barche permettendo un collegamento tra Venezia e l'isola. 
Nel 2019 questa tradizione è stata riproposta, attraverso la costruzione di un ponte temporaneo di 400 metri circa.
Ne sconsiglio la visita in estate (preferisco fare i Thanatour nelle altre stagioni, odio il sole che mi brucia la pelle!) o comunque quando fa troppo caldo..si rischia di non godersi la passeggiata!
L'Isola di San Michele è totalmente dedicata al cimitero urbano della città di Venezia: sembra che nel 1212 fosse stata donata a tre monaci camaldolesi, fondatori di un monastero rimasto in uso sino al 1810, divenendo poi una sorta di prigione per reclusi politici, tra cui passò anche Silvio Pellico.
Nel 1829 divenne dunque sede dei Padri Riformati, che ad oggi hanno in gestione la Chiesa di San Michele, in stile rinascimentale.
In realtà, prima di scegliere questa isola come luogo per le sepolture dei cittadini veneziani, vi fu la prima scelta verso l'Isola di San Cristoforo, in zona Fondamenta Nuove, incapace di accogliere però tutte le salme.
Fu con Annibale Forcellini la scelta del progetto, a pianta a croce greca con la parte finale a forma ellittica, che terminò nel 1876.
L'atmosfera è quasi surreale, si viene immersi in un giardino fatto di cipressi, pini, querce e magnolie, ma anche roseti profumati. Essere sepolti a Venezia è un privilegio, soprattutto per personalità illustri, dagli artisti agli scrittori, agli attori e compositori.
Foto mia, 2016

Giusto per citarne alcuni, Emilio Vedova, Igor Stravinskij, la cui tomba è famosissima e meta di pellegrinaggio da parte di turisti di tutto il mondo, Anthony Quinn, Ezra Pound, altresì famosa la tomba dove sono riposte le scarpette da ballerina di danza classica, quella di Sergej Diaghilew, Franco Basaglia, e Giuseppe Jappelli.
Sull'Isola è presente anche una sala, non molto grande, dove sono riposte delle urne cinerarie anche molto antiche.
Sicuramente mi preme sottolineare che in questi luoghi si deve entrare sempre con rispetto, mai con presunzione e gusto macabro. Ricordiamoci sempre di essere in un luogo di culto, non in un luna park dove sfogare le proprie passioni morbose.


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La tradizione funebre in Molise

Il Molise è una Regione che non ho ancora avuto modo di visitare, mi accontento dunque, almeno per ora, di visitarla solo virtualmente. 
Questa Regione è pregna di usanze legate al culto funebre, in particolare ad Ururi, un piccolo paese molisano, ho scoperto che era presente un rito molto particolare nell'evento luttuoso, oggi non più presente. La comunità era interamente coinvolta e presente nel corteo funebre, per le vie del paese, in supporto alla famiglia del defunto. 

Nelle famiglie più agiate il trattamento cerimoniale poteva essere molto sontuoso  con la presenza di lamentatrici funebri professioniste, in Molise dette "le repute" o "chiangitare", la cui presenza - come abbiamo potuto appurare - ha un significato determinante nell'elaborazione del passaggio tra la morte e la sua elaborazione. Il pianto rituale, la gestualità, la teatralizzazione della cerimonia funebre ponevano al centro il defunto, ricordandone episodi salienti in vita con un linguaggio a lui direttamente dedicato, in forma colloquiale e, in tal modo, il "peso" del dolore era tutto concentrato nelle prefiche cosicché i dolenti potessero "contenere" il proprio cordoglio, in compostezza e silenzio, potendo così ricevere le condoglianze da parte dei compaesani.
Nella contemporaneità sono ancora in uso i banchetti funebri a fine cerimonia, soprattutto nelle fasce contadine, e il portare ai dolenti pasti per sostentarli durante il periodo di lutto.


Le visite da parte dei parenti e dei conoscenti si protraggono per gli otto giorni successivi il lutto, nell'abitazione del defunto, e..non si tralasci la tradizione e la buona usanza di passare per un luogo di culto dopo la visita domiciliare ai dolenti: in tal modo, si "lascia il morto", senza "portarselo a casa" evitando così, scaramanticamente, la possibilità che avvenga un lutto nella propria famiglia.

Trascorsi gli otto giorni i dolenti dovevano rimanere in casa anche per mesi, senza tenere aperti i balconi in segno di rispetto per il defunto, mentre adesso questa tradizione pare affievolita soprattutto per le generazioni più giovani, mentre sembra perdurare tra i più anziani.


Altresì, in Molise, si assiste alla morte del Carnevale proprio prima del Mercoledì delle ceneri, primo giorno di Quaresima.. la morte è dunque ricorrente e, alla stregua di altri riti funebri, anche quello del Carnevale trova un corteo di amici e parenti dove presenziava la banda del paese, ma anche di diavoli con la forca e altri personaggi più celebri.
Come mai il Carnevale? Perchè è la festa in cui i ruoli si invertono, con l'annientamento di ogni gerarchia..Così come la morte, del resto, non fa caso nè a titoli nè a caste: la nera Signora non fa sconti a nessuno.



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domenica 26 aprile 2020

La morte nell'Arte. L'Arte della morte. Part. II


    Peter Bruegel il Vecchio, "Il trionfo della Morte".

Secondo "appuntamento" con la rappresentazione della morte nell'arte.
In realtà non mi va di seguire una sequenza storica, le opere mi tornano sotto mano (sto pensando di spulciare gli archivi con le foto della Biennale di Venezia o qualche altra mostra artistica..quasi quasi).

L'opera di oggi è "Il trionfo della morte", di Peter Bruegel il Vecchio, in squisito stile fiammingo.
Datata al 1562 (circa), è conservata oggi al Museo del Prado, a Madrid, olio su tavola in legno.
Cosa rappresenta? L'epidemia della peste che annienta la popolazione. La scena è decisamente caotica e la morte viene rappresentata da uno scheletro in groppa ad un cavallo (sulla sinistra), che guida un carro pieno di teschi.

I colori cupi risucchiano chi osserva il dipinto immergendolo nella diretta visuale dell'artista.
La peste, dunque, non viene rappresentata direttamente con le piaghe, bensì dalla presenza stessa dello scheletro. Ciò che colpisce è l'equità, chiamiamola così, con cui la morte agisce: ricchi e poveri, giovani e vecchi, senza distinzione alcuna.

E' decisamente devastante: incendi, scene di impiccagione, sembra persino di poter sentire la campana che viene suonata (in alto sulla sinistra) da due figure.
Se ne percepisce la follia, con certi personaggi che cercano difesa sotto il carro per sfuggire alla Morte, c'è chi suona un mandolino cercando di distogliere la propria attenzione dagli occhi vigili di tutti gli scheletri presenti sulla scena, che si "prendono gioco" di coloro che cercano di scappare.

Sulla destra, vicino al tavolo, vediamo uno scheletro con un piccolo vassoio con sopra..una testa, un altro cerca di ammaliare una donna, senza contare alcune scene piuttosto truculente (sgozzamento al centro, divoramento da parte di un cane a sinistra..un macello!).
La cosa che sicuramente attira, ad osservare meglio il quadro, è la piccola imbarcazione con cui l'armata della Morte salpa sulla terra ferma: a sinistra infatti, se ci fate caso, sembra proprio un feretro! Così come gli scudi che gli stessi scheletri utilizzano per farsi largo tra la folla, sono coperchi di bare..insomma, se uno ha una giornata un po' depressiva, meglio che non si metta a guardare questo dipinto.
Beh vabè, ormai, la spiegazione ve la siete letta..e dunque cosa possiamo imparare?
Sicuramente possiamo farci un'idea di ciò che era la visione della morte in quel secolo rispetto a come la rappresentiamo oggi, a seconda della nostra posizione culturale.



©Grief_and_the_Maiden


La ritualità ortodossa. Testimonianza di un amico

In questi giorni ho avuto modo di fare quattro chiacchiere con un ragazzo originario della Romania, attualmente collaborante con attività inerenti al settore funebre.

Tra una cosa e l'altra, mi spiega come il rito segua una rigorosa prassi dalla veglia alla sepoltura, per lo più tramite inumazione..
Riporto qui le sue parole, che arricchiscono ancora di più il mio bagaglio per quanto riguarda le ritualità.
Sentirle raccontare direttamente è ancora più interessante, e gliene sono grata!
Grazie, Jean!

"Dunque...

Il defunto viene tenuto a casa x 3 giorni.

Al portone di ingresso nella casa viene messa una bandiera nera, se è bambino, dimensioni medie se è uomo dimensioni grandi.

Il defunto va messo nella camera da letto o soggiorno, TV coperta e specchi coperti.

Nella bara non va messo il rosario ma una croce ortodossa, alla testa del defunto vanno messe le candele grandi o medie accese e non le luci ad energia elettrica.

Durante questi giorni, le donne organizzano il pranzo x il giorno del dopo funerale.

La notte della veglia non dicono il rosario o roba simile, gli uomini in una stanza organizzano la partita a carte a soldi, mente le donne preparano dolci o altro dai vicini di casa 

A mezzanotte, alla testa del defunto, verranno messe 2 casse di stereo, e durante la veglia verrà trasmessa una serie di canzoni che lui ascoltava spesso, questo alle 5 del mattino verrà trasmessa nuovamente.

Il Giorno dopo ovvero il secondo giorno, nel primo pomeriggio, viene il prete a casa a fare la benedizione della salma ovvero il pallo, vigilia del funerale.

Nel frattempo i parenti del defunto, scelgono un bambino o ragazzo che porterà la sua croce durante il tragitto, mentre gli altri per portare la barra, i candelabri ed aiutante parroco, e non solo, ma anche alcuni uomo che dovranno portare anche delle bandiere.
Che non siano parenti del defunto ovviamente

Il giorno del funerale:
In base l'orario del funerale, il prete arriva prima, con il corro...
Dopo la benedizione della salma in camera mortuaria o ardente, o portantini escono la barra nel cortile dove verrà fatta la messa...
Se si tratta di un ragazzo single, accanto alla bara verrà fatta messa una ragazza in abito di sposa che lo accompagnerà durante il tragitto affiancata al carro funebre con in mano un piatto piano contenente una mezza mela circondata da 5 fette di pane che poi alla fossa dovrà ridurlo a pezzi sbattendolo contro la barra chiusa appena messa dentro.

Ogni angolo della strada il corteo verrà fermata per la preghiera. 

Arrivati all'ingresso del cimitero, il parroco farà un'altra benedizione e l'ultima quando verrà messa nella tomba.

Finito il corteo e la benedizione verrà fatto un rinfresco di ringraziamento al cimitero e poi la mangiata casa del defunto".

Rinnovo i miei ringraziamenti.
Grazie, Jean.

sabato 25 aprile 2020

La tradizione funebre in Lazio






Il mio primo funerale e il battesimo della morte.
Il Lazio per me è..la seconda casa, la mia seconda terra, una parte di me.
La tradizione latina trova ritualità e culti antichissimi che rendono il Lazio una delle Regioni più ricche di tradizioni popolari evolute in vere e proprie superstizioni. In occasione delle veglie dei defunti, sembra fosse pratica assidua lo scambiarsi doni tra fidanzati, a simboleggiarne in modo allusivo la virilità e la fertilità. Eros e Thanatos, ancora una volta, compaiono a braccetto. Così come ricorrente è il rapporto cibo-rito funebre: la sacralità del rito conviviale funebre è documentata già dal 1500: attraverso il cibo, simbolo di vita, si ricreavano rapporti perduti, come ad esempio attraverso le "Fave dei morti", che rimandano alle fave che, nei rituali, i nostri avi bruciavano.

Il mio primissimo funerale (e veglia funebre prima) avvenne proprio qui, in un piccolo paesino della Ciociaria, quando morì la mia bisnonna.
Ero piuttosto piccola, quando accadde la disgrazia, in realtà ho ancora dei ricordi/flash, seppur sfocati, di quella circostanza.
Innanzitutto, ringrazio mia madre e mio padre di non avermi lasciata "fuori", insieme a mio fratello, dall'evento. Venimmo coinvolti in modo sereno, in totale normalità, in quello che fu per entrambi il battesimo della morte, come a me piace chiamarlo.
La bisnonna morì in casa, a casa sua, elemento determinante in tutto ciò (visto che ora, morire in casa è una "fortuna" a cui pochi sono destinati). Venne riposta sul letto nuziale, in camera da letto dunque, e ricordo il via vai di gente, le luci fioche e una sagoma nera stesa al centro del letto.
Sicuramente, non ebbi contatti con lei, mi limitai a guardarla da non molto lontano, senza ben capire cosa effettivamente stesse accadendo, nonostante la stranezza dell'evento (certo, un gruppo di persone che piangono e vanno su e giù per la piccola casetta di campagna..no, non è l'apice della felicità).
La considero a tutti gli effetti una buona dose di Death Education sin dalla tenera età.
Una fonte, a me molto cara, mi ha parlato del "gliù recuns'l", il riconsolo.
Il giorno del funerale, i dolenti non devono preoccuparsi della casa: il pranzo e la cena vengono preparati dagli amici o dai parenti.
Pochi anni fa, poi, ebbi modo di appurare come il processo di ospedalizzazione abbia stravolto la morte e il morire, alla morte di mio zio.
Ammalato, venne portato in ospedale, dove passò le ultime settimane della sua "vita". Questo, ovviamente, non permise una veglia in casa, bensì in una stanza apposita nell'obitorio dell'ospedale che lo aveva in cura.
Ne ricordo il grigiore, la freddezza, nei sotterranei che rendevano tutto asettico e impersonale.
Ma la famiglia, tutti noi, eravamo intorno a lui. Di quel giorno ricordo, dopo il funerale in chiesa, il cammino verso il cimitero, dietro al carro funebre, con (quasi) tutto il paese a seguito..non vorrei sbagliarmi, non vorrei che la memoria mi ingannasse, ma..una banda, piccola, c'era. E accompagnava il corteo verso il camposanto.
Ogni volta che mi reco in paese, il tempo si ferma. E, non me lo nascondo, mi dico sempre che se n'è andato via troppo presto.


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venerdì 24 aprile 2020

La morte nell'Arte. L'arte della Morte. Part. I

Lo ammetto, mi porto dietro da anni i residui dell'Istituto d'Arte.
Arte e Thanatos, da secoli, vanno a braccetto in un valzer squisitamente sconcertante.
La morte è sempre stata rappresentata nell'arte figurativa, basti pensare ai Memento Mori medievali, ma ancora prima alle rappresentazioni nelle tombe Etrusche. (Paestum ne è un esempio).

Mi è ricapitata tra le mani un'opera di Frida Kahlo, nata a Città del Messico nel 1907, eroina e simbolo, oggi, di donna autonoma e forte. In realtà riscontriamo nella sua biografia un rapporto d'amore frastagliato, legato ad un uomo (Diego Rivera) dalla mentalità libertina (ebbene si, se la fece anche con la sorella di Frida).
Di seguito alla poliomielite che la colpì in tenera età, perse una gamba,  fu costretta quindi a dotarsi di un arto artificiale di legno. Non solo, di seguito ad un incidente sul tram, si fratturò il bacino e alcune vertebre, oltre ad avere già la spina bifida sin da piccina, che la costrinse ad utilizzare un busto per mesi. Ebbe inoltre diverse perdite di gravidanza.

Perchè raccontare le sfighe di Frida?
Perchè fu uno splendido esempio di resilienza.
Fu proprio durante la convalescenza e blocco forzato che iniziò a creare i suoi autoritratti: si munì di colori ad olio, di un cavalletto, fece riporre uno specchio sul suo letto a baldacchino dando inizio a una rivoluzione artistica in merito ai temi più profondi e unici delle Donne, compresa la morte.

"La mia pittura porta in sè il messaggio del dolore".
Direi che ci è riuscita divinamente.
Dobbiamo ovviamente tenere conto della cultura di riferimento, quella Messicana, molto più "aperta" alla morte, a cui da' significati e importanza ben diversi e più profondi, anche nella contemporaneità.
Basti pensare al 2 novembre: giornata di festa in cui ci si ricongiunge, attraverso banchetti e maschere, ai propri defunti.

Ecco quindi che introduco un'opera pregna di significato:
"Il sogno", conosciuto anche come "Il Letto", opera del 1940, in cui Frida racconta il suo rapporto con la morte attraverso la pittura.
Lo trovo straordinario e, nonostante la presenza incombente dello scheletro, per niente macabro.


"Il sogno", 1940.


Nell'opera, Frida si auto-rappresenta nel suo letto a baldacchino, coperta da un'edera. Lei dorme, lo scheletro invece è vigile, ho sempre pensato che somigliasse più ad un automa che a dei resti mortali, forse per le piccole protesi che avvolgono le sue gambe, forse perchè mi sembra ingessato, come del resto Frida dovette rimanere ferma mesi e mesi con il gesso..
Questo dipinto trova conferma della sua realtà in una fotografia: Frida aveva davvero uno scheletro sul tetto del baldacchino!
Mi rimane, ad osservarlo, un senso di sospensione nel vuoto, di transizione. 
Un passaggio in attesa di "altro", altrove.
La presenza costante della morte, per una figura come quella di Frida, a mio parere esprime che solo dalle avversità della vita possiamo riuscire a vivere autenticamente, senza paura alcuna di quello che ci aspetta.




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mercoledì 22 aprile 2020

Cimitero Monumentale di Torino

Quando visito una città nuova (o quando torno in una città che amo particolarmente), mi piace fare visita al suo Cimitero Monumentale. L'arte funeraria e le sepolture antiche hanno molto da insegnarci sul nostro passato e sulla società, sugli usi e costumi delle diverse epoche e sul differente modo di ricordare i defunti. Proprio da questa tipologia di arte, infatti, possiamo scoprire molto anche in merito alle ritualità di un tempo, legate alle circostanze socio-culturali che le contraddistinguono.
Uno tra i miei preferiti è proprio quello di Torino, che ho visitato per tre volte in vita mia ma, sia chiaro, non sono bastate per visitarlo tutto!
E' un cimitero veramente molto esteso, ricco di opere d'arte e veramente ben curato, anche grazie all'ASCE (Associazione Cimiteri Europei Storici).
L'area dei porticati si estende per ben 12 chilometri, su un'area di 600.000 metri quadri! 
La costruzione effettiva avvenne a partire dal 1827 e anche qui possiamo cogliere la storia di un personaggio illustre legato alla pratica della cremazione, Ariodante Fabretti e Giovanni Battista Bottero. Fabretti fu infatti il promotore della So.Crem di Torino, Società per la Cremazione, Bottero fu altresì promotore dell'Istituto per la cremazione, affinchè "le ultime spoglie dell'uomo purificate dal fuoco vincendo l'ingiuria del tempo, rimanessero solenne e visibile ricordo alla pietà dei congiunti", come evidenziato in una lastra commemorativa all'entrata della maestosa Sala del Commiato. 
In merito alla sua storia, nel luglio del 1943, a seguito dei bombardamenti, il Cimitero Monumentale di Torino fu vittima di importanti danni sia in merito ai monumenti funebri sia per quanto riguarda la sezione delle tettoie, dell'ara crematoria e della sala dedicata alle autopsie.

Una mia foto, scattata a gennaio 2020

Prima di addentrarmi, ovviamente, ho cercato bene quali fossero le sepolture dei personaggi più illustri, sebbene nel tragitto abbia trovato numerose curiosità e piacevoli scoperte. Ho amato il libro "Cuore", per cui appena seppi che vi era sepolto De Amicis, mi emozionai! Con grande stupore trovai sul mio cammino (seppur non in questo ordine, visto che giravo senza un preciso itinerario): Cesare Lombroso, Mario Soldati, personaggi illustri del mondo industriale quali Matteo Ceirano, Antonio Chiribiri, Giovan Battista Pininfarina, Francesco Cirio. Per caso, mi imbattei nella sezione ebraica dove vi è riposta Rita Levi Montalcini; bellissima anche la tomba di Isa Bluette..
Per non parlare dei sotterranei, dove tutto è dimenticato, grigio, freddo, terribilmente lasciato avvolto nel tempo e nel vuoto..Mi piace osservare le vecchie foto, le foto senza ritocchi, dove le persone vengono immortalate nei luoghi a loro cari. Mi piace guardare gli oggetti che spesso vengono lasciati vicino alle lastre: pupazzetti, angeli, preghiere, rosari..poesie, pentimenti e chissà cos'altro.
I fiori secchi, i lumini mezzi spenti e moribondi, le ragnatele e la polvere su certe statue e lastre antiche..è come tornare ad un'epoca che non mi è mai appartenuta.

Mi chiedo spesso se sia usuale provare certe nostalgie, lascio sempre un pezzo del mio cuore in questi posti. Mi piace pensare che la mia visita, seppur non di un conoscente, possa essere gradita a chi, in questi spazi, ormai ci vive da settimane, mesi, decenni...


Tomba Dini, fotografia mia del gennaio 2020


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lunedì 20 aprile 2020

La tradizione funebre in Basilicata




I processi di ospedalizzazione e medicalizzazione hanno allontanato dalla realtà domestica la tradizione funebre, questo lo si può confermare a livello nazionale, nell'età contemporanea. 
La tradizione funebre della Basilicata è ricca di risvolti e curiosità di cui non ero assolutamente a conoscenza. Fino a non molti decenni fa, alla morte del proprio caro si assisteva come fosse un evento naturale. Evento che, in effetti, ha tutto il diritto di rivelarsi per quello che è: un fatto sociale naturale. Il parroco, poco prima del decesso, veniva chiamato per l'estrema unzione del defunto e, ad exitus avvenuto, si poteva procedere con la preparazione della salma da parte degli stessi familiari. Il defunto veniva riposto nella stanza da letto, sul talamo nuziale per tre giornate cosicché i parenti potessero andarlo a trovare, posto nel feretro solo poco prima che avvenisse l'effettiva funzione. Anche in questa regione troviamo la figura delle prefiche, professioniste del lamento funebre, al fine di ricordare il defunto attraverso nenie e gestualità rituali. Allo scoccare della mezzanotte, nello stesso giorno della dipartita, il defunto veniva lasciato da solo poiché era pensiero comune che gli angeli scendessero sulla terra per portargli via l'anima. Ecco dunque le piccole ritualità appena il corpo veniva riposto nel feretro: un cappello sulle gambe, un fazzoletto nel taschino e altri oggetti cari al defunto quando era in vita (sovente veniva riposto il bastone, nei tempi moderni vediamo riporre anche gli occhiali e....la dentiera!).

Per portare via il feretro dall'abitazione, si utilizzava la "carrez du murt", un'automobile ovviamente di colore nero, con una banda funebre al seguito al fine di rendere ancora più solenne la cerimonia. 
Anche in Basilicata, gli uomini erano soliti sfoggiare una fascia nera sul braccio sinistro, o sul cappello o sulla cravatta, mentre le donne vestivano total black. L'ultimo saluto avveniva all'entrata del camposanto poi, la famiglia ed i parenti, si recavano in casa per consumare insieme il pasto, più precisamente la cena, detta "il Consolo". Era la testimone di nozze ("Comara dell'anello") o la comara di battesimo ("Chmmèr du Sangiuonn") a preparare, sovente, una minestra in brodo. 

Quando avveniva un decesso in paese, le campane suonavano per confermare alla comunità il triste evento: cinque rintocchi per le donne, sette per gli uomini. 


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sabato 18 aprile 2020

La ritualità funebre in Puglia


La Puglia è, come la definisce l'antropologo Ernesto de Martino, "la terra del rimorso",  terra nel quale egli stesso riferì di "appostarsi nei piccoli paesi del Sud in attesa che morisse qualcuno per registrare direttamente i lamenti funebri di millenaria tradizione..". Facendo un salto indietro, in un passato non così lontano, notiamo che la tradizione popolare ricorre a credenze pregne di significato in merito alla sacralità del defunto. Gli specchi, vengono coperti, le porte spalancate affinchè gli altri parenti defunti possano fare visita alla casa e al defunto stesso. Gli uomini, in segno di rispetto, non si radono per 8 giorni, e il fuoco domestico non viene acceso per altrettante giornate. Ogni attività quotidiana muta nel suo essere: non si ascolta la musica, non si presenzia a feste mondane, come se il tempo si fermasse. Anche qui, il cibo è un profondo tratto legato alla ritualità della Morte: i parenti più stretti preparano il cibo per i dolenti e, in alcune zone del Salento, prima del pasto (o prima di un pasto molto caro al defunto) si pronuncia "Lecu Materna", "con affetto materno", ossia un segno della croce per gratificare lo spirito del defunto. Non è raro trovare dentro le dimore pugliesi un angolo tutto dedicato ai propri defunti, per proseguire il culto dei morti accanto ad un lumino e dei fiori sempre freschi. Questo rito, di chiara matrice romana, richiama infatti gli altari più antichi dedicati ai propri antenati, alla ricerca di una protezione apotropaica.
Molto profonda è la sfera superstiziosa legata al culto dei Morti, ad esempio il divieto totale di lasciare gli specchi nella stanza dove il defunto viene esposto per la veglia, poichè potrebbe rimanervi intrappolato; altresì fino agli anni '50 del '900 si seguiva la pratica del riporre una moneta sulla lingua del defunto e sui suoi occhi, con ancora un richiamo al mondo antico greco-romano (per pagare l'obolo a Caronte, il traghettatore dei defunti..in verità, si pensa che il peso delle monete servisse a mantenere chiuse le palpebre in modo naturale).


Città di Otranto - Le prefiche salentine


Sembra sia ancora in uso la tradizione legata al riporre degli oggetti molto cari in vita al defunto, come le sue pietanze preferite, del vino, le scarpe nel feretro, prima del funerale. Questa usanza ha un che di curioso: si presume che siano oggetti che i dolenti portano di seguito a sogni premonitori, in cui altri defunti dicono cosa vogliono dall'aldilà. Spesso infatti, il feretro rimaneva nella casa del defunto, vicino ai familiari in un'apposita camera ardente, così che i dolenti potessero vegliare per il tempo necessario la salma, in una stanza piena di drappi scuri, fiori e ceri. Fino a qualche tempo fa, si era soliti apporre un velo scuro all'ingresso della casa, sempre aperta per accogliere i parenti.

Nei paesi limitrofi a Bari vigeva l'usanza di preparare il pane direttamente sulla bara o sulle tombe, pietanza che veniva poi offerta ai dolenti: è in un rituale di questo genere che troviamo tracce di una forma assai blanda di necrofagia (alcune civiltà antiche, descrive anche Frazer, attuavano riti legato al cannibalismo al fine di cibarsi della forza e delle virtù del defunto). Riscontreremo il pane anche in altre tradizioni funebri regionali.

Dopo il funerale, la famiglia si ritrova per consumare il "banchetto consolatorio", in memoria del defunto, dal significato simbolico legato al fluire della vita, nonostante il dolore.


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venerdì 17 aprile 2020

Il Cimitero Monumentale di Milano. Un Museo a cielo aperto



L’Italia, dal punto di vista artistico-architettonico, offre infinite meraviglie e, tra queste, ci sono anche i Cimiteri Monumentali, veri e propri Musei a cielo aperto.
Il cimitero Monumentale di Milano è sicuramente uno dei più conosciuti e visitati: inaugurato il 2 novembre del 1866 da un progetto architettonico di Carlo Maciachini, si estende per 250.000 metri quadrati. Si tratta di una vera e propria opera d’arte, dai tratti squisitamente bizantini, gotici e romanici. La prima salma tumulata presso il Monumentale fu quell di Gustavo Noseda, compositore e collezionista di stampe musicali, anche se dal 1° gennaio del 1867 si dette il via ufficiale alle sepolture entro l’area cimiteriale.
Questo cimitero presenta innumerevoli opere d’arte funeraria in cui si mescolano stili neoclassici, liberty e razionalistici, verso gusti più moderni, tra cui Arnaldo Pomodoro, Lucio Fontana, Fausto Melotti, il gruppo BBPR (la cui scultura dedicata alle vittime dei lager nazisti è posta subito all’ingresso cimiteriale, al di là del Famedio, con al centro riposta un’urna contenente la terra di Mauthausen).

L'antico crematorio originale (anno 1877).
Appena attraversata la cancellata, l’attenzione del visitatore viene colpita dal Famedio, la struttura centrale dedicata ai personaggi illustri (da “famae aedes”, il “tempio della fama”, per l’appunto). Dallo stile neogotico, accoglie le spoglie di cittadini illustri, a partire dal 1875. Tra i più noti, Alessandro Manzoni e Carlo Cattaneo, ma anche Salvatore Quasimodo e Carlo Forlanini. Sempre nel Famedio, sono presenti delle lastre commemorative, in pietra, dedicate a personaggi legati alla città di Milano, nonostante i resti mortali siano riposti altrove: vi troviamo l’incisione a Ugo Foscolo, Eugenio Montale, a Giorgio de Chirico,  Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, altresì una lastra dedicata a Giuseppe Verdi.

La visita continua al di sotto del Famedio e dei sotterranei, dove troviamo altre sepolture illustri: Alda Merini, Enzo Jannacci, Cesare Maldini, Gae Aulenti, Franca Rame e Dario Fo, Guido Crepax e molti altri.
Passeggiando per il Monumentale, ci si imbatte dunque in usa serie di monumenti avvolti tra i cipressi, un’atmosfera particolare che rende la visita unica e riflessiva. La famosa colonna funebre dedicata al Bernocchi, l’edicola ad Arturo Toscanini, la tomba della famiglia Erba e l’imponente tomba della famiglia Campari, rappresentante l’ultima cena in scala 1:1!



Tomba Campari

E’ possibile quindi visitare la sezione dedicata agli acatollici e la sezione ebraica, molto suggestiva.
Un punto fondamentale, dal punto di vista storico e stilistico, è quello del Crematorio presente al Cimitero Monumentale di Milano. Fu il primo crematorio costruito in Europa, ad opera di Alberto Keller (il primo personaggio ad essere cremato proprio lì nel 1876 e tumulato al monumentale) e Fedele Sala nel 1875, anche se la cremazione venne ufficialmente ammessa a partire dal 1976. 




Consiglio la lettura de:
"Non ti scordar di me", a cura di Carla De Bernardi




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giovedì 16 aprile 2020

Confessioni di un Tanatoprattore




Devo ammettere che, tra le cose che più amo, è ricevere i pensieri e le confidenze di alcune persone che, per caso o per destino, incontro nel corso del mio cammino.
Una di queste è proprio Marco, che qualche giorno fa mi diede possibilità di dar voce ai suoi pensieri, pensieri di un Operatore funebre con la O maiuscola. Pensieri di un Uomo in prima linea in questa emergenza.

Ecco, questa sera Marco mi ha fatto questo dono, un suo pensiero tanto profondo quanto delicato.
Ne faccio tesoro e ve lo porgo come fosse un fiore di cristallo.



"Il sacco.

Stiamo vivendo un momento irreale. Tutto sembrava così lontano in stile “Holliwoodiano”, poi a quarto d’ora di macchina diventò tutto paurosamente vicino. Le distanze si riducevano giorno dopo giorno. Poi una mattina ricevemmo una telefonata: il nostro primo caso di Covid 19. Eppure anche in quel momento il pericolo sembrava così lontano. Da lì il delirio. Tutto così veloce, il telefono cominciò a squillare h24. Una conta immediata dei dispositivi, ok ci sono, le casse pure, tanto quanto potrà durare ci si chiedeva. Realizzi che il virus bussa alla tua porta, tocca ovunque. Accogli le famiglie o vai a casa rischiando perché loro sono in quarantena. Appelli, annunci ecc., ma tu ci devi essere. La dignità delle persone messa a dura prova. Incredule, rassegnate a testa bassa sussurrando che il proprio caro è deceduto per un maledetto virus. Ognuno con proprio dolore con la propria incredulità tanto da chiederci una fotografia del proprio caro. Una telefonata li ha avvisati, una telefonata stanca da chi ha fatto di tutto per curare quel paziente che non ce l’ha fatta, ma consapevole di essere un professionista e quel comunicato può apparire freddo a chi lo riceve.
Una fotografia, vi prego, tu sai che non puoi fare il tu lavoro, cioè il tanatoprattore o tanatoesteta, una fotografia che rimarcherà il dolore e segnerà il futuro prossimo dei dolenti.
Poi arriviamo noi in un obitorio, siamo tutti uguali, operatori sanitari o necrofori, tute maschere guanti occhiali, siamo irriconoscibili, li vediamo stanchi a volte stremati da quel fax che annunciano un altro defunto. Non hanno più barelle, sacchi. Tu arrivi scarichi la bara, ti aiutano ad incassare il defunto e sperano che tu vada via con il feretro il prima possibile, ma le bare si accumulano, le chiese come camere mortuarie 20/40 bare in fila e nell’angolo il parroco col il suo rosario.
Finalmente arriva il giorno della sepoltura, i famigliari in quarantena non ci sono e quelli che seguono al cimitero non possono nemmeno tenersi per mano darsi un abbraccio. Ed ecco il momento difficile per me quando comunichi che hai gli effetti personali del defunto riposti in un sacco. Sacchi rossi o neri con un biglietto.
Sacchi che contengono gli effetti personali, cartelle mediche del defunto, legati con del nastro nero, uno, dieci, cinquanta sacchi sempre più pesanti, sempre più anonimi. Li porti in magazzino per restituirli ai famigliari. Alcuni arrivano subito, altri aspettano. Rimane l’ultimo, uno dei primi che arrivò in magazzino, rosso pesante rosso, lì da 20 giorni. Ogni giorno quando apro il magazzino spero che non ci sia più. Invece c’è. Arrivano continuamente bare da preparare e lui è lì a controllarti. Avverti la sua presenza, la testimonianza che tu tanatoprattore, non hai fatto il tuo dovere. Sai che non è colpa tua, ma dopo un mese ormai ci parlo col sacco, ogni giorno il suo peso aumenta. Sai che arriverà il tempo per i consulenti del lutto, per i dolenti. A noi resterà una esperienza in 3D e finalmente quel sacco se nè andato. Ora ti manca e non nascondi una lacrima, il simbolo della tua impotenza, lavorativamente parlando, del fatto che nessuno prende in considerazione che la tua esperienza, il tuo conoscere in Italia non contano, perché sei un becchino e non hai nessun diritto. Poi la tragedia diventa pandemia e i corpi si ammucchiano, i rischi crescono e il sistema va in tilt. Decreti, ordinanze, richiami di legge che si intrecciano, cambiano in poche ore. Ma tu sai ciò che devi fare. Allora si accorgono di te, ti chiedono cosa metti nella bara, perché lavori così. “Non posso dargli la giusta dignità almeno non gli do il disgusto da parte vostra”. Già operatori funebri che arricciano il naso all’odore di chi non c’è più, ai cadaveri avvolti in lenzuola e lasciati soli in ogni senso, almeno il senso del disgusto non lo devono dare a questi incompetenti. I miei non devono emanare odore. Almeno questo glielo devo perciò quel sacco non ha più peso, ma è diventato un compagno nel viaggio di ritorno al magazzino, igienizzato e profumato per rientrare nelle case da cui è partito."

Marco Caraffini, Tanatoesteta e Tanatoprattore.


Grazie.
B.

martedì 14 aprile 2020

La tradizione funebre in Sardegna




Il rito funebre ai tempi dei nostri bisnonni. Antiche usanze ...


La tradizione sarda è ricca di curiosità per quanto concerne le ritualità funebri e i riti di passaggio, a cui questa terra ha riservato un posto speciale nella sfera collettiva. Il viaggio del defunto era caratterizzato da un codice rituale, teu, fatto di lamenti, urla e gestualità per lo più operato dalle donne. Nelle prime ore dopo la morte, la cura del corpo era compito delle parenti più strette: la salma veniva detersa, vestita e riposta a fianco del focolare, sovente posta sul tavolo o su un catafalco velato da un lenzuolo, con i piedi rivolti verso la porta per agevolarne il trapasso.
Solo quando tutto era sistemato a dovere, compreso il riporre una piccola croce sul petto del defunto, allora i parenti potevano recarsi nell'abitazione per attuare ufficialmente la veglia funebre, accompagnata da nenie funebri e preghiere dette sottovoce (o silenziose), che nelle diverse aree  della Regione assume diciture diverse: "sa blslta", "sa rla" o "krumplu". Gli uomini erano relegati in una stanza a parte, mentre le donne contemplavano la salma.

Il giorno della morte il vicinato aveva il compito di preparare pietanze per il pranzo dei dolenti, ecco che anche qui troviamo la porta di casa sempre aperta per le visite. Al nono giorno, la famiglia si ritrovava per la "coena novendalis", ritualità romana.

"La sera dopo il seppellimento, i parenti si riunivano per un altro banchetto funebre, in questa occasione in certe zone dell’ Isola, erano d’obbligo le fave e le uova, antico piatto funebre di ispirazione greca, poi sostituito con sa “maccarronada” (maccheroni). Al settimo e nono giorno dalla morte, i familiari distribuivano ai vicini , agli amici e ai poveri; carne, pane, pasta (maccheroni). I pani che si distribuivano erano fatti con una farina particolare e detti “paneddas” o, in altre zone, “kokkas."

Erano le prefiche le "addette" alle lamentazioni funebri e alle gestualità ritmiche che dovevano accompagnare il lutto, mettendo in enfasi la drammaticità dell'evento-morte per far sì che il defunto (che per tradizione sarebbe leggermente permaloso) placasse la sua ira con un lamento adeguato alla sua morte. Anche il loro arrivo nell'abitazione seguiva un preciso rituale: capo chino, mani unite e viso teso, senza alcuno sguardo ai dolenti. La tradizione sarda legata alle nenie funebri è rimasta viva sino a pochi decenni fa e tramandata per generazioni, nonostante l'elevato tasso di analfabetismo delle Donne. Nenie che esplicavano la morte secondo la sua tipologia, che fosse invero naturale, traumatica (dove si invocava la vendetta). Il lamento iniziava con un grido molto forte e da lì, i pianti e le urla rituali da parte delle prefiche presenti.
Fino agli anni '80, era possibile, a Sindia, chiamare delle prefiche professioniste.

Un'altra particolarità, che per molto tempo è stata in qualche modo negata, è la presenza della figura dell'Accabadora, "S'Accabadora", che si presume abbia operato almeno fino agli anni '70 del secolo scorso. Se ne hanno testimonianze per lo più nelle memorie familiari e per via orale. Era colei che, in situazioni di malattia terminale, aiutava i moribondi a fare il loro ultimo passo (vi era anche la variante maschile, in Campidano, degli "Accabadoris"). Sicuramente, il contesto socio culturale richiamava a sé pratiche altre, in mancanza di medicine che potessero alleviare le pene dei moribondi. Solitamente vestita di nero, viene descritta dal Dottor Bucarelli, Medico legale ed antropologo criminale dell'Università di Sassari, come una donna molto sapiente per quanto concerne l'anatomia umana: difatti, tale figura era, ancora prima che Accabadora, levatrice.
Le ultime testimonianze si ebbero a Luras (1929) e ad Orgosolo (1959):
"A Luras, in Gallura, l’ ostetrica del paese accabbò un uomo di 70 anni. La donna però non fu condannata, il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario".

Ad oggi, secondo alcune fonti a me vicine, il rito della vestizione rimane prerogativa della famiglia, possibilmente all'interno della propria abitazione.

In Gallura, è possibile visitare il Museo etnografico di Luras curato da Pier Giacomo Pala, che custodisce l'unico esemplare di "su mazzolu", uno strumento ligneo di olivo che..sembra servisse per dare l'ultimo colpo, sul cranio, dei moribondi.
Per approfondire, ho trovato un testo che potrebbe essere utile:




«Ho visto agire S'Accabadora». La prima testimonianza oculare di una persona vivente sull'operato di S'Accabadora. Con DVD, di Dolores Turchi.



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lunedì 13 aprile 2020

4 chiacchiere con.. Flavio

Vicepresidente ATTI, Associazione Tanatoprattori Tanatocosmeti Italiani. Originario di Bergamo, Flavio in questi mesi di emergenza sanitaria è direttamente coinvolto ed impegnato a prendersi cura di coloro che se ne vanno, nel modo più professionale ed empatico che lo contraddistingue. In realtà, l'intervista è solo una piccola parentesi del lavoro che fa: ho potuto appurare, sentendolo in questi mesi, quanto sia una persona legata alla propria professione che porta avanti con passione ed empatia, peculiarità che dovrebbero essere alla base per supportare i dolenti da parte di ogni professionista del settore che si rispetti.
E' una testimonianza di tutto quello che questa emergenza, legata al Covid-19, comporta nel settore funerario, che sembra non trovare (ancora) la giusta risonanza a livello mediatico.
Buona lettura!

Il mio nome è Flavio Ferri sono bergamasco nato il 29 aprile del 1982 a Treviglio,  sono vicepresidente della ATTI Associazione Tanatoprattori Tanatocosmeti Italiani e, pratico la professione del tanatocosmeta e cerimoniere funebre da 15 anni abbondanti, ma solo negli ultimi 5 anni ho iniziato i miei studi nel mondo della tanatoprassia. I miei studi derivano agli albori dalla curiosità, sfamata da vari tutorial su internet, poi  venuto a conoscenza di corsi di specializzazione, sulle salme, prevalentemente all'estero a cui ho deciso di partecipare attivamente, lì ho constatato un livello superiore di preparazione umana e scientifica rispetto all'Italia. 

La mia preparazione è avvenuta prevalentemente in Spagna e a Budapest, dove ho avuto l'onore di poter acquisire nuove tecniche come i trattamenti conservativi transitori temporanei, l'arte del dare una dignità ai defunti con conoscenze tecniche appropriate, cosa ahimè in Italia illegali. Ho avuto la possibilità, a costi elevatissimi, di crescere come tanatoprattore, capendo che la base della tanatocosmesi è proprio la tanatoprassia, a oggi credo che il mio livello di preparazione in materia sia sprecato per l'Italia. Credo altresì che la formazione professionale dei corsi Sortem sia valida per una buona preparazione ma sia necessario tuttavia avere la possibilità di una laurea in materia infermieristica o medica.
In questo periodo di emergenza mondiale mi sto confrontando con amici nonchè colleghi colombiani ,spagnoli, ungheresi ecc, il problema che riscontro in Italia, mio malgrado, è l'ignoranza che dilaga nel settore funebre, troppi operatori (la maggior parte) non ha mai utilizzato DPI prima del covid 19, infatti quasi tutte le imprese funebri sono rimaste senza mascherine camici grembiuli calzari bracciali visiere mono uso, e guanti,  molte imprese hanno pagato a duro prezzo questa leggerezza con innumerevoli contagi a volte finiti in tragedia. 

La sottovalutazione della gravità di questa emergenza da parte delle istituzioni, la mancata preparazione da parte dello stato e degli enti sanitari, ha creato tanta paura e confusione tra la popolazione.
Io opero in Lombardia nel comprensorio di Bergamo, Cremona, Brescia, e Lodi dove il virus c.19 ha colpito più duramente portando scie di morte, tutte le famiglie sono state coinvolte. 
Personalmente a oggi ho vissuto momenti drammatici di dolore per via delle innumerevoli famiglie a me care, a cui ho prestato servizio, ho visto interi nuclei famigliari distrutti nel giro di un mese, figli che non hanno potuto dare l'ultimo saluto ai propri genitori, morti in solitudine, abbandonati al loro destino per via delle impossibilità da parte dei medici e infermieri nel prestare le cure dovute, a causa dell'incredibile numero di pazienti contagiati, nonostante il notevole impegno e sacrificio da loro dimostrato.
Ho visto il sovraffollamento delle camere mortuarie, a Bergamo come a Cremona Lodi Brescia l'intervento dell'Esercito con scenari apocalittici, costruire ospedali a tempo record.
Nelle camere mortuarie sono stati applicati regolamenti che per il mio libero pensiero, i casi di covid19 o presunti (poiché i tamponi non vengono fatti) hanno annullato la dignità del defunto e dei dolenti, chi muore in ospedale o abitazione, ancora oggi non può essere vestito e preparato in maniera dignitosa, deve essere subito riposto nella cassa e sigillato a seconda dell'iter del funerale,(tumulazione, inumazione, cremazione). I forni crematori sono stati sovraccaricati di salme, tutti noi abbiamo visto video nei telegiornali con innumerevoli camion dell'Esercito trasferire dagli ospedali ai crematori  migliaia di BARE  in strutture anche fuori Regione. I tempi di attesa degli esiti da cremazione hanno preso tempistiche lunghissime, aumentando il dispiacere dei dolenti.
A mio umile parere, in questo periodo storico, si è ringraziato tutto il personale medico infermieristico, che si è prodigato al limite delle proprie forze. Non si è mai parlato di noi operatori funebri, dei nostri sacrifici e sforzi, dei nostri altissimi rischi di contagio, le difficoltà nel reperire i DPI, la difficoltà nell'organizzare un così alto numero di sepolture in tempi così ristretti, con le avversità burocratiche con gli enti preposti. Il dolore delle perdite umane dei nostri affetti, e l'impossibilità nel'onorare le salme, con i vari riti funebri a seconda delle etnie e religioni, il divieto di congregazione o assembramento, hanno aumentato il distacco e la sofferenza delle circostanze del evento funebre.
Personalmente mi sveglio ogni mattina e penso a tutto ciò che sta accadendo in questo periodo e l'unica cosa che mi auguro, è che passi il prima possibile e che sia di insegnamento a tutti, con la speranza che ritorni la voglia di vivere senza la paura di essere contagiati, con più rispetto per la vita.

Flavio Ferri, 13-04-2020




                                                                                                                         ©Grief_and_the_Maiden