domenica 24 maggio 2020

Parte III. Verso la Pornography of Death

Già dalla metà del XIX secolo, abbiamo visto una rivoluzione nel pensiero legato alla memoria e al culto dei defunti, nell'incapacità di accettare il distacco come risultava più naturale nelle precedenti epoche.
Un fattore inizia ad essere determinante, ovvero che la verità, soprattutto nei confronti del morente e nella sua malattia, inizia ad essere un problema.
La "congiura del silenzio" nei suoi confronti è un fatto che nella contemporaneità ancora permane, al fine di risparmiare (a noi, più che altro, ma questo è un altro discorso) il sentimento di pena al malato, anche se in tal modo gli togliamo il diritto di sapere cosa stia avvenendo a lui. Per l'appunto, in età moderna si comincia a non voler turbare in realtà la società nel suo complesso nel grande evento della morte e delle sue conseguenze. La nostra è la società della felicità, a cui sicuramente la situazione emergenziale attuale, legata al Covid-19, ha ridefinito i limiti, ma di base è una società del "benessere", almeno per quanto concerne la società Occidentale agiata.
La presenza della morte, in tutto questo, è scomoda e non deve trovare spazio: tutto deve rispecchiare una felicità, seppure sforzata, e l'evidenza del tutto via via torna dietro le quinte. Tra gli anni '30 e '50 del secolo scorso, questa situazione volge al suo esasperato apice allorquando anche il luogo in cui si muore viene a cambiare: non si muore più in casa, ma in ospedale, dove la malattia (e di conseguenza, la morte) viene nascosta, viene accartocciata nell'angolo della società dove il corpo, stanco e vecchio, non può "infastidire" una società giovane legata al culto di un corpo sempre tonico e prestante, soprattutto dal punto di vista produttivo. Il punto è, ed è la questione fondamentale, che si muore da soli, lasciati a sè stessi e lontani dagli affetti e dal supporto sociale e familiare.


Il significato della morte, della sua attesa, della sua concretezza viene perciò a mutare con l'avvento dell'ospedalizzazione della malattia, per cui il morente viene a morire senza "disturbare" l'equilibrio intorno a lui (o, perlomeno, una morte ospedalizzata comunque ha effetti sull'elaborazione del lutto da parte dei familiari, in cui spesso si riscontra un senso di colpa). In realtà, i dolenti sono a loro volta coinvolti nell'impossibilità di esternare il proprio dolore e stato di malessere: non si deve piangere, non si deve apparire tristi, non si deve rischiare di stravolgere gli equilibri felici della società, e tutto ciò che si può fare è esternare il proprio dolore nel privato e, possibilmente, in silenzio, lontani da orecchie indiscrete. Dobbiamo essere, nell'immediato, prestanti, attivi, tornare a lavoro senza esternare nulla, "come se nulla fosse successo".

La repressione del dolore, dunque, ha diversi risvolti sul benessere psico-fisico del dolente: il trauma che si viene a creare determina a sua volta un'elaborazione del lutto non genuina o benefica, per tornare alla normalità e attivare i meccanismi di resilienza.
Eccoci finalmente alle Teorie di Geoffrey Gorer e della sua pornografia della morte: "la morte è divenuta un tabù [...], i bambini oggi sono iniziati dalla più tenera età alla fisiologia dell'amore, ma, quando non vedono più il nonno e se ne stupiscono, gli si dice che riposa in un bel giardino in mezzo ai fiori" (Gorer, J., The pornography of Death, 1955).

Nel 1900, infatti, cominciamo a vedere, perlomeno negli Stati Uniti, la pratica dell'imbalsamazione, già in uso nel 1800 ma non molto diffusa, è una pratica che l'Europa aveva in qualche modo abbandonato nel XIX secolo, dove sono gli Stati Uniti a detenere il primato di preparazione del corpo per conservarlo temporaneamente al fine di allungarne l'apparenza vitale. Non è un rifiuto della morte e del suo impatto, c'è un che di geniale, dietro a questa scelta: la morte, per essere venduta, deve essere attraente, sostiene Ariès.
La Morte, va da sé, è divenuta "non più un periodo necessario, di cui la società impone il rispetto, ma uno stato morboso che bisogna curare, abbreviare, cancellare" (Ariès, 1975).

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