domenica 26 aprile 2020

La morte nell'Arte. L'Arte della morte. Part. II


    Peter Bruegel il Vecchio, "Il trionfo della Morte".

Secondo "appuntamento" con la rappresentazione della morte nell'arte.
In realtà non mi va di seguire una sequenza storica, le opere mi tornano sotto mano (sto pensando di spulciare gli archivi con le foto della Biennale di Venezia o qualche altra mostra artistica..quasi quasi).

L'opera di oggi è "Il trionfo della morte", di Peter Bruegel il Vecchio, in squisito stile fiammingo.
Datata al 1562 (circa), è conservata oggi al Museo del Prado, a Madrid, olio su tavola in legno.
Cosa rappresenta? L'epidemia della peste che annienta la popolazione. La scena è decisamente caotica e la morte viene rappresentata da uno scheletro in groppa ad un cavallo (sulla sinistra), che guida un carro pieno di teschi.

I colori cupi risucchiano chi osserva il dipinto immergendolo nella diretta visuale dell'artista.
La peste, dunque, non viene rappresentata direttamente con le piaghe, bensì dalla presenza stessa dello scheletro. Ciò che colpisce è l'equità, chiamiamola così, con cui la morte agisce: ricchi e poveri, giovani e vecchi, senza distinzione alcuna.

E' decisamente devastante: incendi, scene di impiccagione, sembra persino di poter sentire la campana che viene suonata (in alto sulla sinistra) da due figure.
Se ne percepisce la follia, con certi personaggi che cercano difesa sotto il carro per sfuggire alla Morte, c'è chi suona un mandolino cercando di distogliere la propria attenzione dagli occhi vigili di tutti gli scheletri presenti sulla scena, che si "prendono gioco" di coloro che cercano di scappare.

Sulla destra, vicino al tavolo, vediamo uno scheletro con un piccolo vassoio con sopra..una testa, un altro cerca di ammaliare una donna, senza contare alcune scene piuttosto truculente (sgozzamento al centro, divoramento da parte di un cane a sinistra..un macello!).
La cosa che sicuramente attira, ad osservare meglio il quadro, è la piccola imbarcazione con cui l'armata della Morte salpa sulla terra ferma: a sinistra infatti, se ci fate caso, sembra proprio un feretro! Così come gli scudi che gli stessi scheletri utilizzano per farsi largo tra la folla, sono coperchi di bare..insomma, se uno ha una giornata un po' depressiva, meglio che non si metta a guardare questo dipinto.
Beh vabè, ormai, la spiegazione ve la siete letta..e dunque cosa possiamo imparare?
Sicuramente possiamo farci un'idea di ciò che era la visione della morte in quel secolo rispetto a come la rappresentiamo oggi, a seconda della nostra posizione culturale.



©Grief_and_the_Maiden


La ritualità ortodossa. Testimonianza di un amico

In questi giorni ho avuto modo di fare quattro chiacchiere con un ragazzo originario della Romania, attualmente collaborante con attività inerenti al settore funebre.

Tra una cosa e l'altra, mi spiega come il rito segua una rigorosa prassi dalla veglia alla sepoltura, per lo più tramite inumazione..
Riporto qui le sue parole, che arricchiscono ancora di più il mio bagaglio per quanto riguarda le ritualità.
Sentirle raccontare direttamente è ancora più interessante, e gliene sono grata!
Grazie, Jean!

"Dunque...

Il defunto viene tenuto a casa x 3 giorni.

Al portone di ingresso nella casa viene messa una bandiera nera, se è bambino, dimensioni medie se è uomo dimensioni grandi.

Il defunto va messo nella camera da letto o soggiorno, TV coperta e specchi coperti.

Nella bara non va messo il rosario ma una croce ortodossa, alla testa del defunto vanno messe le candele grandi o medie accese e non le luci ad energia elettrica.

Durante questi giorni, le donne organizzano il pranzo x il giorno del dopo funerale.

La notte della veglia non dicono il rosario o roba simile, gli uomini in una stanza organizzano la partita a carte a soldi, mente le donne preparano dolci o altro dai vicini di casa 

A mezzanotte, alla testa del defunto, verranno messe 2 casse di stereo, e durante la veglia verrà trasmessa una serie di canzoni che lui ascoltava spesso, questo alle 5 del mattino verrà trasmessa nuovamente.

Il Giorno dopo ovvero il secondo giorno, nel primo pomeriggio, viene il prete a casa a fare la benedizione della salma ovvero il pallo, vigilia del funerale.

Nel frattempo i parenti del defunto, scelgono un bambino o ragazzo che porterà la sua croce durante il tragitto, mentre gli altri per portare la barra, i candelabri ed aiutante parroco, e non solo, ma anche alcuni uomo che dovranno portare anche delle bandiere.
Che non siano parenti del defunto ovviamente

Il giorno del funerale:
In base l'orario del funerale, il prete arriva prima, con il corro...
Dopo la benedizione della salma in camera mortuaria o ardente, o portantini escono la barra nel cortile dove verrà fatta la messa...
Se si tratta di un ragazzo single, accanto alla bara verrà fatta messa una ragazza in abito di sposa che lo accompagnerà durante il tragitto affiancata al carro funebre con in mano un piatto piano contenente una mezza mela circondata da 5 fette di pane che poi alla fossa dovrà ridurlo a pezzi sbattendolo contro la barra chiusa appena messa dentro.

Ogni angolo della strada il corteo verrà fermata per la preghiera. 

Arrivati all'ingresso del cimitero, il parroco farà un'altra benedizione e l'ultima quando verrà messa nella tomba.

Finito il corteo e la benedizione verrà fatto un rinfresco di ringraziamento al cimitero e poi la mangiata casa del defunto".

Rinnovo i miei ringraziamenti.
Grazie, Jean.

sabato 25 aprile 2020

La tradizione funebre in Lazio






Il mio primo funerale e il battesimo della morte.
Il Lazio per me è..la seconda casa, la mia seconda terra, una parte di me.
La tradizione latina trova ritualità e culti antichissimi che rendono il Lazio una delle Regioni più ricche di tradizioni popolari evolute in vere e proprie superstizioni. In occasione delle veglie dei defunti, sembra fosse pratica assidua lo scambiarsi doni tra fidanzati, a simboleggiarne in modo allusivo la virilità e la fertilità. Eros e Thanatos, ancora una volta, compaiono a braccetto. Così come ricorrente è il rapporto cibo-rito funebre: la sacralità del rito conviviale funebre è documentata già dal 1500: attraverso il cibo, simbolo di vita, si ricreavano rapporti perduti, come ad esempio attraverso le "Fave dei morti", che rimandano alle fave che, nei rituali, i nostri avi bruciavano.

Il mio primissimo funerale (e veglia funebre prima) avvenne proprio qui, in un piccolo paesino della Ciociaria, quando morì la mia bisnonna.
Ero piuttosto piccola, quando accadde la disgrazia, in realtà ho ancora dei ricordi/flash, seppur sfocati, di quella circostanza.
Innanzitutto, ringrazio mia madre e mio padre di non avermi lasciata "fuori", insieme a mio fratello, dall'evento. Venimmo coinvolti in modo sereno, in totale normalità, in quello che fu per entrambi il battesimo della morte, come a me piace chiamarlo.
La bisnonna morì in casa, a casa sua, elemento determinante in tutto ciò (visto che ora, morire in casa è una "fortuna" a cui pochi sono destinati). Venne riposta sul letto nuziale, in camera da letto dunque, e ricordo il via vai di gente, le luci fioche e una sagoma nera stesa al centro del letto.
Sicuramente, non ebbi contatti con lei, mi limitai a guardarla da non molto lontano, senza ben capire cosa effettivamente stesse accadendo, nonostante la stranezza dell'evento (certo, un gruppo di persone che piangono e vanno su e giù per la piccola casetta di campagna..no, non è l'apice della felicità).
La considero a tutti gli effetti una buona dose di Death Education sin dalla tenera età.
Una fonte, a me molto cara, mi ha parlato del "gliù recuns'l", il riconsolo.
Il giorno del funerale, i dolenti non devono preoccuparsi della casa: il pranzo e la cena vengono preparati dagli amici o dai parenti.
Pochi anni fa, poi, ebbi modo di appurare come il processo di ospedalizzazione abbia stravolto la morte e il morire, alla morte di mio zio.
Ammalato, venne portato in ospedale, dove passò le ultime settimane della sua "vita". Questo, ovviamente, non permise una veglia in casa, bensì in una stanza apposita nell'obitorio dell'ospedale che lo aveva in cura.
Ne ricordo il grigiore, la freddezza, nei sotterranei che rendevano tutto asettico e impersonale.
Ma la famiglia, tutti noi, eravamo intorno a lui. Di quel giorno ricordo, dopo il funerale in chiesa, il cammino verso il cimitero, dietro al carro funebre, con (quasi) tutto il paese a seguito..non vorrei sbagliarmi, non vorrei che la memoria mi ingannasse, ma..una banda, piccola, c'era. E accompagnava il corteo verso il camposanto.
Ogni volta che mi reco in paese, il tempo si ferma. E, non me lo nascondo, mi dico sempre che se n'è andato via troppo presto.


©Grief_and_the_Maiden

venerdì 24 aprile 2020

La morte nell'Arte. L'arte della Morte. Part. I

Lo ammetto, mi porto dietro da anni i residui dell'Istituto d'Arte.
Arte e Thanatos, da secoli, vanno a braccetto in un valzer squisitamente sconcertante.
La morte è sempre stata rappresentata nell'arte figurativa, basti pensare ai Memento Mori medievali, ma ancora prima alle rappresentazioni nelle tombe Etrusche. (Paestum ne è un esempio).

Mi è ricapitata tra le mani un'opera di Frida Kahlo, nata a Città del Messico nel 1907, eroina e simbolo, oggi, di donna autonoma e forte. In realtà riscontriamo nella sua biografia un rapporto d'amore frastagliato, legato ad un uomo (Diego Rivera) dalla mentalità libertina (ebbene si, se la fece anche con la sorella di Frida).
Di seguito alla poliomielite che la colpì in tenera età, perse una gamba,  fu costretta quindi a dotarsi di un arto artificiale di legno. Non solo, di seguito ad un incidente sul tram, si fratturò il bacino e alcune vertebre, oltre ad avere già la spina bifida sin da piccina, che la costrinse ad utilizzare un busto per mesi. Ebbe inoltre diverse perdite di gravidanza.

Perchè raccontare le sfighe di Frida?
Perchè fu uno splendido esempio di resilienza.
Fu proprio durante la convalescenza e blocco forzato che iniziò a creare i suoi autoritratti: si munì di colori ad olio, di un cavalletto, fece riporre uno specchio sul suo letto a baldacchino dando inizio a una rivoluzione artistica in merito ai temi più profondi e unici delle Donne, compresa la morte.

"La mia pittura porta in sè il messaggio del dolore".
Direi che ci è riuscita divinamente.
Dobbiamo ovviamente tenere conto della cultura di riferimento, quella Messicana, molto più "aperta" alla morte, a cui da' significati e importanza ben diversi e più profondi, anche nella contemporaneità.
Basti pensare al 2 novembre: giornata di festa in cui ci si ricongiunge, attraverso banchetti e maschere, ai propri defunti.

Ecco quindi che introduco un'opera pregna di significato:
"Il sogno", conosciuto anche come "Il Letto", opera del 1940, in cui Frida racconta il suo rapporto con la morte attraverso la pittura.
Lo trovo straordinario e, nonostante la presenza incombente dello scheletro, per niente macabro.


"Il sogno", 1940.


Nell'opera, Frida si auto-rappresenta nel suo letto a baldacchino, coperta da un'edera. Lei dorme, lo scheletro invece è vigile, ho sempre pensato che somigliasse più ad un automa che a dei resti mortali, forse per le piccole protesi che avvolgono le sue gambe, forse perchè mi sembra ingessato, come del resto Frida dovette rimanere ferma mesi e mesi con il gesso..
Questo dipinto trova conferma della sua realtà in una fotografia: Frida aveva davvero uno scheletro sul tetto del baldacchino!
Mi rimane, ad osservarlo, un senso di sospensione nel vuoto, di transizione. 
Un passaggio in attesa di "altro", altrove.
La presenza costante della morte, per una figura come quella di Frida, a mio parere esprime che solo dalle avversità della vita possiamo riuscire a vivere autenticamente, senza paura alcuna di quello che ci aspetta.




 ©Grief_and_the_Maiden

mercoledì 22 aprile 2020

Cimitero Monumentale di Torino

Quando visito una città nuova (o quando torno in una città che amo particolarmente), mi piace fare visita al suo Cimitero Monumentale. L'arte funeraria e le sepolture antiche hanno molto da insegnarci sul nostro passato e sulla società, sugli usi e costumi delle diverse epoche e sul differente modo di ricordare i defunti. Proprio da questa tipologia di arte, infatti, possiamo scoprire molto anche in merito alle ritualità di un tempo, legate alle circostanze socio-culturali che le contraddistinguono.
Uno tra i miei preferiti è proprio quello di Torino, che ho visitato per tre volte in vita mia ma, sia chiaro, non sono bastate per visitarlo tutto!
E' un cimitero veramente molto esteso, ricco di opere d'arte e veramente ben curato, anche grazie all'ASCE (Associazione Cimiteri Europei Storici).
L'area dei porticati si estende per ben 12 chilometri, su un'area di 600.000 metri quadri! 
La costruzione effettiva avvenne a partire dal 1827 e anche qui possiamo cogliere la storia di un personaggio illustre legato alla pratica della cremazione, Ariodante Fabretti e Giovanni Battista Bottero. Fabretti fu infatti il promotore della So.Crem di Torino, Società per la Cremazione, Bottero fu altresì promotore dell'Istituto per la cremazione, affinchè "le ultime spoglie dell'uomo purificate dal fuoco vincendo l'ingiuria del tempo, rimanessero solenne e visibile ricordo alla pietà dei congiunti", come evidenziato in una lastra commemorativa all'entrata della maestosa Sala del Commiato. 
In merito alla sua storia, nel luglio del 1943, a seguito dei bombardamenti, il Cimitero Monumentale di Torino fu vittima di importanti danni sia in merito ai monumenti funebri sia per quanto riguarda la sezione delle tettoie, dell'ara crematoria e della sala dedicata alle autopsie.

Una mia foto, scattata a gennaio 2020

Prima di addentrarmi, ovviamente, ho cercato bene quali fossero le sepolture dei personaggi più illustri, sebbene nel tragitto abbia trovato numerose curiosità e piacevoli scoperte. Ho amato il libro "Cuore", per cui appena seppi che vi era sepolto De Amicis, mi emozionai! Con grande stupore trovai sul mio cammino (seppur non in questo ordine, visto che giravo senza un preciso itinerario): Cesare Lombroso, Mario Soldati, personaggi illustri del mondo industriale quali Matteo Ceirano, Antonio Chiribiri, Giovan Battista Pininfarina, Francesco Cirio. Per caso, mi imbattei nella sezione ebraica dove vi è riposta Rita Levi Montalcini; bellissima anche la tomba di Isa Bluette..
Per non parlare dei sotterranei, dove tutto è dimenticato, grigio, freddo, terribilmente lasciato avvolto nel tempo e nel vuoto..Mi piace osservare le vecchie foto, le foto senza ritocchi, dove le persone vengono immortalate nei luoghi a loro cari. Mi piace guardare gli oggetti che spesso vengono lasciati vicino alle lastre: pupazzetti, angeli, preghiere, rosari..poesie, pentimenti e chissà cos'altro.
I fiori secchi, i lumini mezzi spenti e moribondi, le ragnatele e la polvere su certe statue e lastre antiche..è come tornare ad un'epoca che non mi è mai appartenuta.

Mi chiedo spesso se sia usuale provare certe nostalgie, lascio sempre un pezzo del mio cuore in questi posti. Mi piace pensare che la mia visita, seppur non di un conoscente, possa essere gradita a chi, in questi spazi, ormai ci vive da settimane, mesi, decenni...


Tomba Dini, fotografia mia del gennaio 2020


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lunedì 20 aprile 2020

La tradizione funebre in Basilicata




I processi di ospedalizzazione e medicalizzazione hanno allontanato dalla realtà domestica la tradizione funebre, questo lo si può confermare a livello nazionale, nell'età contemporanea. 
La tradizione funebre della Basilicata è ricca di risvolti e curiosità di cui non ero assolutamente a conoscenza. Fino a non molti decenni fa, alla morte del proprio caro si assisteva come fosse un evento naturale. Evento che, in effetti, ha tutto il diritto di rivelarsi per quello che è: un fatto sociale naturale. Il parroco, poco prima del decesso, veniva chiamato per l'estrema unzione del defunto e, ad exitus avvenuto, si poteva procedere con la preparazione della salma da parte degli stessi familiari. Il defunto veniva riposto nella stanza da letto, sul talamo nuziale per tre giornate cosicché i parenti potessero andarlo a trovare, posto nel feretro solo poco prima che avvenisse l'effettiva funzione. Anche in questa regione troviamo la figura delle prefiche, professioniste del lamento funebre, al fine di ricordare il defunto attraverso nenie e gestualità rituali. Allo scoccare della mezzanotte, nello stesso giorno della dipartita, il defunto veniva lasciato da solo poiché era pensiero comune che gli angeli scendessero sulla terra per portargli via l'anima. Ecco dunque le piccole ritualità appena il corpo veniva riposto nel feretro: un cappello sulle gambe, un fazzoletto nel taschino e altri oggetti cari al defunto quando era in vita (sovente veniva riposto il bastone, nei tempi moderni vediamo riporre anche gli occhiali e....la dentiera!).

Per portare via il feretro dall'abitazione, si utilizzava la "carrez du murt", un'automobile ovviamente di colore nero, con una banda funebre al seguito al fine di rendere ancora più solenne la cerimonia. 
Anche in Basilicata, gli uomini erano soliti sfoggiare una fascia nera sul braccio sinistro, o sul cappello o sulla cravatta, mentre le donne vestivano total black. L'ultimo saluto avveniva all'entrata del camposanto poi, la famiglia ed i parenti, si recavano in casa per consumare insieme il pasto, più precisamente la cena, detta "il Consolo". Era la testimone di nozze ("Comara dell'anello") o la comara di battesimo ("Chmmèr du Sangiuonn") a preparare, sovente, una minestra in brodo. 

Quando avveniva un decesso in paese, le campane suonavano per confermare alla comunità il triste evento: cinque rintocchi per le donne, sette per gli uomini. 


                                                                   ©Grief_and_the_Maiden


sabato 18 aprile 2020

La ritualità funebre in Puglia


La Puglia è, come la definisce l'antropologo Ernesto de Martino, "la terra del rimorso",  terra nel quale egli stesso riferì di "appostarsi nei piccoli paesi del Sud in attesa che morisse qualcuno per registrare direttamente i lamenti funebri di millenaria tradizione..". Facendo un salto indietro, in un passato non così lontano, notiamo che la tradizione popolare ricorre a credenze pregne di significato in merito alla sacralità del defunto. Gli specchi, vengono coperti, le porte spalancate affinchè gli altri parenti defunti possano fare visita alla casa e al defunto stesso. Gli uomini, in segno di rispetto, non si radono per 8 giorni, e il fuoco domestico non viene acceso per altrettante giornate. Ogni attività quotidiana muta nel suo essere: non si ascolta la musica, non si presenzia a feste mondane, come se il tempo si fermasse. Anche qui, il cibo è un profondo tratto legato alla ritualità della Morte: i parenti più stretti preparano il cibo per i dolenti e, in alcune zone del Salento, prima del pasto (o prima di un pasto molto caro al defunto) si pronuncia "Lecu Materna", "con affetto materno", ossia un segno della croce per gratificare lo spirito del defunto. Non è raro trovare dentro le dimore pugliesi un angolo tutto dedicato ai propri defunti, per proseguire il culto dei morti accanto ad un lumino e dei fiori sempre freschi. Questo rito, di chiara matrice romana, richiama infatti gli altari più antichi dedicati ai propri antenati, alla ricerca di una protezione apotropaica.
Molto profonda è la sfera superstiziosa legata al culto dei Morti, ad esempio il divieto totale di lasciare gli specchi nella stanza dove il defunto viene esposto per la veglia, poichè potrebbe rimanervi intrappolato; altresì fino agli anni '50 del '900 si seguiva la pratica del riporre una moneta sulla lingua del defunto e sui suoi occhi, con ancora un richiamo al mondo antico greco-romano (per pagare l'obolo a Caronte, il traghettatore dei defunti..in verità, si pensa che il peso delle monete servisse a mantenere chiuse le palpebre in modo naturale).


Città di Otranto - Le prefiche salentine


Sembra sia ancora in uso la tradizione legata al riporre degli oggetti molto cari in vita al defunto, come le sue pietanze preferite, del vino, le scarpe nel feretro, prima del funerale. Questa usanza ha un che di curioso: si presume che siano oggetti che i dolenti portano di seguito a sogni premonitori, in cui altri defunti dicono cosa vogliono dall'aldilà. Spesso infatti, il feretro rimaneva nella casa del defunto, vicino ai familiari in un'apposita camera ardente, così che i dolenti potessero vegliare per il tempo necessario la salma, in una stanza piena di drappi scuri, fiori e ceri. Fino a qualche tempo fa, si era soliti apporre un velo scuro all'ingresso della casa, sempre aperta per accogliere i parenti.

Nei paesi limitrofi a Bari vigeva l'usanza di preparare il pane direttamente sulla bara o sulle tombe, pietanza che veniva poi offerta ai dolenti: è in un rituale di questo genere che troviamo tracce di una forma assai blanda di necrofagia (alcune civiltà antiche, descrive anche Frazer, attuavano riti legato al cannibalismo al fine di cibarsi della forza e delle virtù del defunto). Riscontreremo il pane anche in altre tradizioni funebri regionali.

Dopo il funerale, la famiglia si ritrova per consumare il "banchetto consolatorio", in memoria del defunto, dal significato simbolico legato al fluire della vita, nonostante il dolore.


                                                                  ©Grief_and_the_Maiden


venerdì 17 aprile 2020

Il Cimitero Monumentale di Milano. Un Museo a cielo aperto



L’Italia, dal punto di vista artistico-architettonico, offre infinite meraviglie e, tra queste, ci sono anche i Cimiteri Monumentali, veri e propri Musei a cielo aperto.
Il cimitero Monumentale di Milano è sicuramente uno dei più conosciuti e visitati: inaugurato il 2 novembre del 1866 da un progetto architettonico di Carlo Maciachini, si estende per 250.000 metri quadrati. Si tratta di una vera e propria opera d’arte, dai tratti squisitamente bizantini, gotici e romanici. La prima salma tumulata presso il Monumentale fu quell di Gustavo Noseda, compositore e collezionista di stampe musicali, anche se dal 1° gennaio del 1867 si dette il via ufficiale alle sepolture entro l’area cimiteriale.
Questo cimitero presenta innumerevoli opere d’arte funeraria in cui si mescolano stili neoclassici, liberty e razionalistici, verso gusti più moderni, tra cui Arnaldo Pomodoro, Lucio Fontana, Fausto Melotti, il gruppo BBPR (la cui scultura dedicata alle vittime dei lager nazisti è posta subito all’ingresso cimiteriale, al di là del Famedio, con al centro riposta un’urna contenente la terra di Mauthausen).

L'antico crematorio originale (anno 1877).
Appena attraversata la cancellata, l’attenzione del visitatore viene colpita dal Famedio, la struttura centrale dedicata ai personaggi illustri (da “famae aedes”, il “tempio della fama”, per l’appunto). Dallo stile neogotico, accoglie le spoglie di cittadini illustri, a partire dal 1875. Tra i più noti, Alessandro Manzoni e Carlo Cattaneo, ma anche Salvatore Quasimodo e Carlo Forlanini. Sempre nel Famedio, sono presenti delle lastre commemorative, in pietra, dedicate a personaggi legati alla città di Milano, nonostante i resti mortali siano riposti altrove: vi troviamo l’incisione a Ugo Foscolo, Eugenio Montale, a Giorgio de Chirico,  Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, altresì una lastra dedicata a Giuseppe Verdi.

La visita continua al di sotto del Famedio e dei sotterranei, dove troviamo altre sepolture illustri: Alda Merini, Enzo Jannacci, Cesare Maldini, Gae Aulenti, Franca Rame e Dario Fo, Guido Crepax e molti altri.
Passeggiando per il Monumentale, ci si imbatte dunque in usa serie di monumenti avvolti tra i cipressi, un’atmosfera particolare che rende la visita unica e riflessiva. La famosa colonna funebre dedicata al Bernocchi, l’edicola ad Arturo Toscanini, la tomba della famiglia Erba e l’imponente tomba della famiglia Campari, rappresentante l’ultima cena in scala 1:1!



Tomba Campari

E’ possibile quindi visitare la sezione dedicata agli acatollici e la sezione ebraica, molto suggestiva.
Un punto fondamentale, dal punto di vista storico e stilistico, è quello del Crematorio presente al Cimitero Monumentale di Milano. Fu il primo crematorio costruito in Europa, ad opera di Alberto Keller (il primo personaggio ad essere cremato proprio lì nel 1876 e tumulato al monumentale) e Fedele Sala nel 1875, anche se la cremazione venne ufficialmente ammessa a partire dal 1976. 




Consiglio la lettura de:
"Non ti scordar di me", a cura di Carla De Bernardi




                                                                        ©Grief_and_the_Maiden

giovedì 16 aprile 2020

Confessioni di un Tanatoprattore




Devo ammettere che, tra le cose che più amo, è ricevere i pensieri e le confidenze di alcune persone che, per caso o per destino, incontro nel corso del mio cammino.
Una di queste è proprio Marco, che qualche giorno fa mi diede possibilità di dar voce ai suoi pensieri, pensieri di un Operatore funebre con la O maiuscola. Pensieri di un Uomo in prima linea in questa emergenza.

Ecco, questa sera Marco mi ha fatto questo dono, un suo pensiero tanto profondo quanto delicato.
Ne faccio tesoro e ve lo porgo come fosse un fiore di cristallo.



"Il sacco.

Stiamo vivendo un momento irreale. Tutto sembrava così lontano in stile “Holliwoodiano”, poi a quarto d’ora di macchina diventò tutto paurosamente vicino. Le distanze si riducevano giorno dopo giorno. Poi una mattina ricevemmo una telefonata: il nostro primo caso di Covid 19. Eppure anche in quel momento il pericolo sembrava così lontano. Da lì il delirio. Tutto così veloce, il telefono cominciò a squillare h24. Una conta immediata dei dispositivi, ok ci sono, le casse pure, tanto quanto potrà durare ci si chiedeva. Realizzi che il virus bussa alla tua porta, tocca ovunque. Accogli le famiglie o vai a casa rischiando perché loro sono in quarantena. Appelli, annunci ecc., ma tu ci devi essere. La dignità delle persone messa a dura prova. Incredule, rassegnate a testa bassa sussurrando che il proprio caro è deceduto per un maledetto virus. Ognuno con proprio dolore con la propria incredulità tanto da chiederci una fotografia del proprio caro. Una telefonata li ha avvisati, una telefonata stanca da chi ha fatto di tutto per curare quel paziente che non ce l’ha fatta, ma consapevole di essere un professionista e quel comunicato può apparire freddo a chi lo riceve.
Una fotografia, vi prego, tu sai che non puoi fare il tu lavoro, cioè il tanatoprattore o tanatoesteta, una fotografia che rimarcherà il dolore e segnerà il futuro prossimo dei dolenti.
Poi arriviamo noi in un obitorio, siamo tutti uguali, operatori sanitari o necrofori, tute maschere guanti occhiali, siamo irriconoscibili, li vediamo stanchi a volte stremati da quel fax che annunciano un altro defunto. Non hanno più barelle, sacchi. Tu arrivi scarichi la bara, ti aiutano ad incassare il defunto e sperano che tu vada via con il feretro il prima possibile, ma le bare si accumulano, le chiese come camere mortuarie 20/40 bare in fila e nell’angolo il parroco col il suo rosario.
Finalmente arriva il giorno della sepoltura, i famigliari in quarantena non ci sono e quelli che seguono al cimitero non possono nemmeno tenersi per mano darsi un abbraccio. Ed ecco il momento difficile per me quando comunichi che hai gli effetti personali del defunto riposti in un sacco. Sacchi rossi o neri con un biglietto.
Sacchi che contengono gli effetti personali, cartelle mediche del defunto, legati con del nastro nero, uno, dieci, cinquanta sacchi sempre più pesanti, sempre più anonimi. Li porti in magazzino per restituirli ai famigliari. Alcuni arrivano subito, altri aspettano. Rimane l’ultimo, uno dei primi che arrivò in magazzino, rosso pesante rosso, lì da 20 giorni. Ogni giorno quando apro il magazzino spero che non ci sia più. Invece c’è. Arrivano continuamente bare da preparare e lui è lì a controllarti. Avverti la sua presenza, la testimonianza che tu tanatoprattore, non hai fatto il tuo dovere. Sai che non è colpa tua, ma dopo un mese ormai ci parlo col sacco, ogni giorno il suo peso aumenta. Sai che arriverà il tempo per i consulenti del lutto, per i dolenti. A noi resterà una esperienza in 3D e finalmente quel sacco se nè andato. Ora ti manca e non nascondi una lacrima, il simbolo della tua impotenza, lavorativamente parlando, del fatto che nessuno prende in considerazione che la tua esperienza, il tuo conoscere in Italia non contano, perché sei un becchino e non hai nessun diritto. Poi la tragedia diventa pandemia e i corpi si ammucchiano, i rischi crescono e il sistema va in tilt. Decreti, ordinanze, richiami di legge che si intrecciano, cambiano in poche ore. Ma tu sai ciò che devi fare. Allora si accorgono di te, ti chiedono cosa metti nella bara, perché lavori così. “Non posso dargli la giusta dignità almeno non gli do il disgusto da parte vostra”. Già operatori funebri che arricciano il naso all’odore di chi non c’è più, ai cadaveri avvolti in lenzuola e lasciati soli in ogni senso, almeno il senso del disgusto non lo devono dare a questi incompetenti. I miei non devono emanare odore. Almeno questo glielo devo perciò quel sacco non ha più peso, ma è diventato un compagno nel viaggio di ritorno al magazzino, igienizzato e profumato per rientrare nelle case da cui è partito."

Marco Caraffini, Tanatoesteta e Tanatoprattore.


Grazie.
B.

martedì 14 aprile 2020

La tradizione funebre in Sardegna




Il rito funebre ai tempi dei nostri bisnonni. Antiche usanze ...


La tradizione sarda è ricca di curiosità per quanto concerne le ritualità funebri e i riti di passaggio, a cui questa terra ha riservato un posto speciale nella sfera collettiva. Il viaggio del defunto era caratterizzato da un codice rituale, teu, fatto di lamenti, urla e gestualità per lo più operato dalle donne. Nelle prime ore dopo la morte, la cura del corpo era compito delle parenti più strette: la salma veniva detersa, vestita e riposta a fianco del focolare, sovente posta sul tavolo o su un catafalco velato da un lenzuolo, con i piedi rivolti verso la porta per agevolarne il trapasso.
Solo quando tutto era sistemato a dovere, compreso il riporre una piccola croce sul petto del defunto, allora i parenti potevano recarsi nell'abitazione per attuare ufficialmente la veglia funebre, accompagnata da nenie funebri e preghiere dette sottovoce (o silenziose), che nelle diverse aree  della Regione assume diciture diverse: "sa blslta", "sa rla" o "krumplu". Gli uomini erano relegati in una stanza a parte, mentre le donne contemplavano la salma.

Il giorno della morte il vicinato aveva il compito di preparare pietanze per il pranzo dei dolenti, ecco che anche qui troviamo la porta di casa sempre aperta per le visite. Al nono giorno, la famiglia si ritrovava per la "coena novendalis", ritualità romana.

"La sera dopo il seppellimento, i parenti si riunivano per un altro banchetto funebre, in questa occasione in certe zone dell’ Isola, erano d’obbligo le fave e le uova, antico piatto funebre di ispirazione greca, poi sostituito con sa “maccarronada” (maccheroni). Al settimo e nono giorno dalla morte, i familiari distribuivano ai vicini , agli amici e ai poveri; carne, pane, pasta (maccheroni). I pani che si distribuivano erano fatti con una farina particolare e detti “paneddas” o, in altre zone, “kokkas."

Erano le prefiche le "addette" alle lamentazioni funebri e alle gestualità ritmiche che dovevano accompagnare il lutto, mettendo in enfasi la drammaticità dell'evento-morte per far sì che il defunto (che per tradizione sarebbe leggermente permaloso) placasse la sua ira con un lamento adeguato alla sua morte. Anche il loro arrivo nell'abitazione seguiva un preciso rituale: capo chino, mani unite e viso teso, senza alcuno sguardo ai dolenti. La tradizione sarda legata alle nenie funebri è rimasta viva sino a pochi decenni fa e tramandata per generazioni, nonostante l'elevato tasso di analfabetismo delle Donne. Nenie che esplicavano la morte secondo la sua tipologia, che fosse invero naturale, traumatica (dove si invocava la vendetta). Il lamento iniziava con un grido molto forte e da lì, i pianti e le urla rituali da parte delle prefiche presenti.
Fino agli anni '80, era possibile, a Sindia, chiamare delle prefiche professioniste.

Un'altra particolarità, che per molto tempo è stata in qualche modo negata, è la presenza della figura dell'Accabadora, "S'Accabadora", che si presume abbia operato almeno fino agli anni '70 del secolo scorso. Se ne hanno testimonianze per lo più nelle memorie familiari e per via orale. Era colei che, in situazioni di malattia terminale, aiutava i moribondi a fare il loro ultimo passo (vi era anche la variante maschile, in Campidano, degli "Accabadoris"). Sicuramente, il contesto socio culturale richiamava a sé pratiche altre, in mancanza di medicine che potessero alleviare le pene dei moribondi. Solitamente vestita di nero, viene descritta dal Dottor Bucarelli, Medico legale ed antropologo criminale dell'Università di Sassari, come una donna molto sapiente per quanto concerne l'anatomia umana: difatti, tale figura era, ancora prima che Accabadora, levatrice.
Le ultime testimonianze si ebbero a Luras (1929) e ad Orgosolo (1959):
"A Luras, in Gallura, l’ ostetrica del paese accabbò un uomo di 70 anni. La donna però non fu condannata, il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario".

Ad oggi, secondo alcune fonti a me vicine, il rito della vestizione rimane prerogativa della famiglia, possibilmente all'interno della propria abitazione.

In Gallura, è possibile visitare il Museo etnografico di Luras curato da Pier Giacomo Pala, che custodisce l'unico esemplare di "su mazzolu", uno strumento ligneo di olivo che..sembra servisse per dare l'ultimo colpo, sul cranio, dei moribondi.
Per approfondire, ho trovato un testo che potrebbe essere utile:




«Ho visto agire S'Accabadora». La prima testimonianza oculare di una persona vivente sull'operato di S'Accabadora. Con DVD, di Dolores Turchi.



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lunedì 13 aprile 2020

4 chiacchiere con.. Flavio

Vicepresidente ATTI, Associazione Tanatoprattori Tanatocosmeti Italiani. Originario di Bergamo, Flavio in questi mesi di emergenza sanitaria è direttamente coinvolto ed impegnato a prendersi cura di coloro che se ne vanno, nel modo più professionale ed empatico che lo contraddistingue. In realtà, l'intervista è solo una piccola parentesi del lavoro che fa: ho potuto appurare, sentendolo in questi mesi, quanto sia una persona legata alla propria professione che porta avanti con passione ed empatia, peculiarità che dovrebbero essere alla base per supportare i dolenti da parte di ogni professionista del settore che si rispetti.
E' una testimonianza di tutto quello che questa emergenza, legata al Covid-19, comporta nel settore funerario, che sembra non trovare (ancora) la giusta risonanza a livello mediatico.
Buona lettura!

Il mio nome è Flavio Ferri sono bergamasco nato il 29 aprile del 1982 a Treviglio,  sono vicepresidente della ATTI Associazione Tanatoprattori Tanatocosmeti Italiani e, pratico la professione del tanatocosmeta e cerimoniere funebre da 15 anni abbondanti, ma solo negli ultimi 5 anni ho iniziato i miei studi nel mondo della tanatoprassia. I miei studi derivano agli albori dalla curiosità, sfamata da vari tutorial su internet, poi  venuto a conoscenza di corsi di specializzazione, sulle salme, prevalentemente all'estero a cui ho deciso di partecipare attivamente, lì ho constatato un livello superiore di preparazione umana e scientifica rispetto all'Italia. 

La mia preparazione è avvenuta prevalentemente in Spagna e a Budapest, dove ho avuto l'onore di poter acquisire nuove tecniche come i trattamenti conservativi transitori temporanei, l'arte del dare una dignità ai defunti con conoscenze tecniche appropriate, cosa ahimè in Italia illegali. Ho avuto la possibilità, a costi elevatissimi, di crescere come tanatoprattore, capendo che la base della tanatocosmesi è proprio la tanatoprassia, a oggi credo che il mio livello di preparazione in materia sia sprecato per l'Italia. Credo altresì che la formazione professionale dei corsi Sortem sia valida per una buona preparazione ma sia necessario tuttavia avere la possibilità di una laurea in materia infermieristica o medica.
In questo periodo di emergenza mondiale mi sto confrontando con amici nonchè colleghi colombiani ,spagnoli, ungheresi ecc, il problema che riscontro in Italia, mio malgrado, è l'ignoranza che dilaga nel settore funebre, troppi operatori (la maggior parte) non ha mai utilizzato DPI prima del covid 19, infatti quasi tutte le imprese funebri sono rimaste senza mascherine camici grembiuli calzari bracciali visiere mono uso, e guanti,  molte imprese hanno pagato a duro prezzo questa leggerezza con innumerevoli contagi a volte finiti in tragedia. 

La sottovalutazione della gravità di questa emergenza da parte delle istituzioni, la mancata preparazione da parte dello stato e degli enti sanitari, ha creato tanta paura e confusione tra la popolazione.
Io opero in Lombardia nel comprensorio di Bergamo, Cremona, Brescia, e Lodi dove il virus c.19 ha colpito più duramente portando scie di morte, tutte le famiglie sono state coinvolte. 
Personalmente a oggi ho vissuto momenti drammatici di dolore per via delle innumerevoli famiglie a me care, a cui ho prestato servizio, ho visto interi nuclei famigliari distrutti nel giro di un mese, figli che non hanno potuto dare l'ultimo saluto ai propri genitori, morti in solitudine, abbandonati al loro destino per via delle impossibilità da parte dei medici e infermieri nel prestare le cure dovute, a causa dell'incredibile numero di pazienti contagiati, nonostante il notevole impegno e sacrificio da loro dimostrato.
Ho visto il sovraffollamento delle camere mortuarie, a Bergamo come a Cremona Lodi Brescia l'intervento dell'Esercito con scenari apocalittici, costruire ospedali a tempo record.
Nelle camere mortuarie sono stati applicati regolamenti che per il mio libero pensiero, i casi di covid19 o presunti (poiché i tamponi non vengono fatti) hanno annullato la dignità del defunto e dei dolenti, chi muore in ospedale o abitazione, ancora oggi non può essere vestito e preparato in maniera dignitosa, deve essere subito riposto nella cassa e sigillato a seconda dell'iter del funerale,(tumulazione, inumazione, cremazione). I forni crematori sono stati sovraccaricati di salme, tutti noi abbiamo visto video nei telegiornali con innumerevoli camion dell'Esercito trasferire dagli ospedali ai crematori  migliaia di BARE  in strutture anche fuori Regione. I tempi di attesa degli esiti da cremazione hanno preso tempistiche lunghissime, aumentando il dispiacere dei dolenti.
A mio umile parere, in questo periodo storico, si è ringraziato tutto il personale medico infermieristico, che si è prodigato al limite delle proprie forze. Non si è mai parlato di noi operatori funebri, dei nostri sacrifici e sforzi, dei nostri altissimi rischi di contagio, le difficoltà nel reperire i DPI, la difficoltà nell'organizzare un così alto numero di sepolture in tempi così ristretti, con le avversità burocratiche con gli enti preposti. Il dolore delle perdite umane dei nostri affetti, e l'impossibilità nel'onorare le salme, con i vari riti funebri a seconda delle etnie e religioni, il divieto di congregazione o assembramento, hanno aumentato il distacco e la sofferenza delle circostanze del evento funebre.
Personalmente mi sveglio ogni mattina e penso a tutto ciò che sta accadendo in questo periodo e l'unica cosa che mi auguro, è che passi il prima possibile e che sia di insegnamento a tutti, con la speranza che ritorni la voglia di vivere senza la paura di essere contagiati, con più rispetto per la vita.

Flavio Ferri, 13-04-2020




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domenica 12 aprile 2020

4 chiacchiere con.. Marco C.


Tanatoprattore e Tanatoesteta professionista, coinvolto nel settore funerario da 20 anni e attivo in una delle regioni più colpite d'Italia.
In questo post, affronteremo insieme il suo punto di vista in una situazione tanto delicata quale quella legata all'emergenza Covid-19.

Caro Marco,
intanto grazie di cuore per il tuo tempo, vista la situazione e (suppongo) le tue giornate lavorative molto piene ed estenuanti.
Sto cercando di dare sfogo e visibilità alla vera condizione degli Operatori Funebri, dal loro punto di vista (e non dal punto di vista di coloro che sono estranei al settore).

Dunque, le domande sono semplici e dirette, e riguardano in via generale la Tua personale condizione.

B. Intanto, da quanti anni professi questo lavoro?
M. Lavoro nel comparto funebre da 20 anni e non cambierei il mio lavoro con nessuno al mondo, anche se comporta sacrifici.

B. Se posso chiederti, quale tipologia di studi e corsi hai seguito per raggiungere tale professionalità?
M. A parte l'esperienza di chi prima di me, mi ha insegnato molto, son un direttore tecnico, ho un diploma in tanatoprassi conseguito in Spagna, ho vari corsi/ diplomi da scienze forensi a Funeral Service e consulente del dolore e del lutto conseguiti a Londra. Ho avuto l'onore di essere allievo di Javier Chavez Inzuza e di Mariangela Gelati presso la scuola superiore Funeraria di Modena.

B. Concentriamoci, ora, sull’attuale situazione. Quali problematiche stai riscontrando, sul campo? Per problematiche intendo la possibilità di proteggerti con adeguati dispositivi in una situazione emergenziale che non vede precedenti negli ultimi anni?
M. Ricordo, parlo per la mia città ovviamente di essere stato il primo a preparare una salma morta per AIDS e già allora operatori funebri o sanitari mi guardavano come un alieno. Ora ti posso dire che all'inizio della pandemia siamo presi alla sprovvista per il numero di servizi che si presentavano, ma per quanto riguarda i dispositivi, non abbiamo mai avuto problemi, o meglio cerchiamo sempre di lavorare in sicurezza e ne ho vestiti circa una ventina prima che arrivò il decreto che ne impediva la vestizione. Poi differenziare le forniture ci ha permesso di recepire dispositivi da varie ditte.

B. Quali cambiamenti hai dovuto attuare nel tuo “normale” modo di lavorare?
M. Questa pandemia ha cambiato tutto. Io prima lavoravo in una impresa da più di 800 servizi l'anno ed eravamo in quattro operai fissi, perciò ero un po' preparato alla “catena di montaggio” che si è venuta a creare. La definisco così perchè questi 46 giorni possiamo dire di non aver lavorato con il modus operandi che ci contraddistingue, ma abbiamo dovuto accantonare tante cose.

B. Riesci a relazionarti ai dolenti, nel pieno delle Tue facoltà professionali, o riscontri delle limitazioni? E se si, quali tipologie di restrizioni?
M. Se ti riferisci in questo periodo straordinario ti dico di no. Nella normalità degli eventi, se così possiamo definire la morte di un proprio caro, si. Il vantaggio di avere le basi sul come relazionarsi con i dolenti e gli anni d'esperienza, riesci a capire ciò che il cliente cerca da te. Poi essendo il preparatore di salme mi capita spesso di dialogare con le famiglie. Anche per come è impostata l'agenzia per cui lavoro, dove la nostra titolare tiene prese la nostra opinione.

B. Si parla molto di altre figure, sicuramente importanti e determinanti nel campo della salute e benessere sociale, in realtà la figura degli Operatori Funebri, rimane ancora piuttosto “dietro le quinte”. Qual è la tua opinione in merito?
M. Tocchi un tasto dolente del nostro settore. La gente è convinta, ma anche per responsabilità stessa  per le figure storiche che la tradizione o cronaca recente hanno dato al nostro settore una luce non così pulita di esso. All'estero la figura dell'impresario funebre o di chi lavora in questo settore è vista con molto più rispetto. Esempio quando qui c'erano ancora le municipalizzate (2004) si tendeva ad assumere ex galeotti o gente ai margini della società tornando ai manzoniani bravi o monatti. In questo periodo di urgenza dove tutti ringraziano dalla commessa del supermercato agli operatori sanitari persino agli idraulici, hai mai sentito dire grazie ai necrofori? Io faccio parte di tanti gruppi sparsi nel globo e ti posso garantire che mi hanno chiesto e dato informazioni a go go utili per non parlare di un sostegno morale incredibile. Mi auguro che tutto il lavoro che sto facendo dietro le quinte, non ultimo ho scritto da signor nessuno al presidente del consiglio in questi giorni, un grazie a tutti noi, dai portantini all'impresario perchè noi non ci siamo tolti quando c'è stato di tendere una mano alle nostre comunità.

B. Visto l’elevato numero di decessi, concentrati in un periodo che come si diceva poc’anzi, non riscontra precedenti, hai riscontrato sintomi di burn-out in merito alla tua personale condizione?
M. Io personalmente no, ma questo è anche dovuto al mio carattere, poi colleghi  , anche di altre imprese mi hanno chiamato per un sostegno morale. Io poi, parlo a titolo personale ovviamente, questa distanza sociale non riesco a rispettarla molto cerco sempre di dare la così detta “Pacca sulla spalla” a sostegno di colleghi ed amici o dolenti e alcuni capiscono altri sono in imbarazzo dato il delicato momento e mi guardano con occhi sbarrati.

B. Confrontandoti con i colleghi, riesci in qualche modo a trovare un sostegno adeguato, un supporto psicologico, seppure non terapeutico, con loro?
M. Come ti ho già detto tendenzialmente cerco di dare supporto più che riceverlo, per quanto riguarda me stesso cerco supporto al dì fuori del campo lavorativo, ma soprattutto in me stesso. Non per presunzione ma essendo riservato per le mie cose, tendo a cercare sostegno nella famiglia, senza ovviamente scendere nei particolari del mio lavoro.

B. Ti lascio uno spazio, se vorrai, per riportarmi pensieri e riflessioni personali in merito alla circostanza Covid-19.
M. Ok allora vuoi farti del male, scherzo ovviamente. In merito a questa situazione ti dico che sono arrivato alla conclusione che Covid-19 ha decretato la fine dell'umanesimo. La ricchezza, sopra ogni cosa ed ad ogni costo. Non entro nel merito o demerito politico nazionale o europeo, quello lasciamoli ai posteri. Ogni giorno sento dire tutto sarà diverso. Io mi domando se in meglio o peggio. Le famiglie colpite da lutti per Covid-19 non hanno potuto onorare i propri cari, vivere ed elaborare il proprio lutto e questo la considero una bomba sociale. Vedere la Grande Mela avvisata dell'arrivo del virus correre non al supermercato ma in armeria fa pensare che questo virus incoronato di regale alla nostra società non lascerà nulla. Per quanto riguarda noi spero che i necrofori ed impresari prendano coscienza delle proprie realtà e cerchino di avere personale sempre più formato ed informato, strutturando le proprie imprese in realtà moderne, non trascurando la vecchia strada, ma facendo della propria esperienza  un valore aggiunto, ma creando figure ( Tanatoprattori Cerimonieri o consulenti del lutto)  che gravitino nell'impresa e  possano educare la gente a capire che non siamo avvoltoi.       

Grazie di cuore. 


                                                                                                                                             ©Grief_and_the_Maiden

                                                          

La tradizione funebre in Calabria



Nell'età contemporanea la Calabria è testimone di ritualità e commemorazioni ancora antiche e radicate nel territorio, talvolta manifestazioni di miti arcaici e di credenze necrofobiche, analizzate dai più illustri antropologi e storici quali Di Nola, De Martino o Pitrè.
Come in altre culture prima analizzate, anche qui riscontriamo la particolarità delle nenie funebri di matrice agro-pastorale, la cui finalità è esorcizzare la paura della morte e del distacco dal defunto, a cui si chiede una qualche forma di "riscontro" (ricordiamoci che i defunti, sono sempre un po' "permalosi" :) ). Queste nenie seguono una musicalità precisa e una gestualità corporea molto pronunciata: è attraverso il lamento funebre e la gestualità stessa che i dolenti vengono aiutati nel lavoro del lutto, rendendo più sopportabile attraverso la ritualità, l'agonia della morte. In realtà, da quasi 40 anni non vengono più utilizzate le lamentatrici funebri professioniste ("cianciaturi delli Jarbi"), altresì ritroviamo delle figure di donne, dette "mediatrici" la cui presenza si concretizzava nei casi in cui il decesso non avveniva e la malattia, dunque, era restia a lasciare il corpo del morente. Queste mediatrici, le cui testimonianze appaiono nei testi di diversi antropologi, erano vere e proprie "sacerdotesse della morte". Nei diversi articoli che ho potuto affrontare, risulta esservi spesso una buona dose di omertà da parte della popolazione più anziana quando viene chiesto qualcosa che vada più in profondità, quando si parla di queste figure capaci di aiutare nell'ultimo passo il moribondo, nonostante riconoscano le diverse forme di "cura pietosa" attuata da figure emblematiche nonostante la condanna da parte della Chiesa Cattolica verso qualsivoglia forma di eutanasia.
Nel periodo del "focu mortu" dunque, il focolare domestico veniva spento e spente anche le relazioni sociali.

L'ARTE DEL PIANGERE I DEFUNTI · Il Giornale del Ricordo | Memorie ...
                                        Immagine presa dal web. Veglia funebre in ambiente domestico.

"Giunto il momento del redde rationem, la donna più prossima al malato in linea parentale raccoglieva lo spirito del defunto con un bacio e gli chiudeva gli occhi con un fazzoletto bianco: il sacrestano poteva finalmente suonare la “spirata”(6), mentre il cadavere veniva sistemato nella bara col rasoio per la barba, una paratura di calze, la coroncina del Rosario, il libricino delle massime eterne, gli oggetti d’affezione dell’ iconografia  locale e, in qualche caso, con una moneta nascosta in una tasca del vestito. Si perpetuava così, seppur con scarsa o nessuna consapevolezza, l’arcaica tradizione del pagamento metaforico dell’obolo a Caronte, per il traghettamento nel regno dell’eternità e della verità, da dove “nessunu è mmai  tornatu”.

La stessa preparazione della salma, la vestizione e toeletta, erano a cura dei familiari, tradizione che oggi è stata via via perduta dalle generazioni più giovani.

Curiosità
∞ Sino al secondo dopoguerra vi era l'usanza di colorare di nero gli infissi della casa la cui famiglia era colpita da un lutto e così i dolenti erano soliti portare vestiti neri. Le donne dovevano obbligatoriamente vestirsi di nero, non truccarsi nè prendersi cura di loro stesso, altresì gli uomini non dovevano radersi, mostrare una fascia nera sul braccio o un bottoncino nero da portare sulla giacca. La tradizione del vestito nero portato a lutto, viene a sgretolarsi con il tempo, sebbene la fascia più anziana riesca e voglia mantenere le tradizioni, questo un po' in tutte le Regioni italiane, con una percezione più introspettiva del cordoglio, portato dentro di sè.
Fino a circa vent'anni fa dopo la sepoltura a terra, ai dolenti veniva garantito il "cunsulu", la colazione, il pranzo e la cena per sostenere i dolenti.

∞ A San Demetrio Corone, in provincia di Cosenza, si attua una tradizione funebre tutta particolare nei giorni del sabato antecedente alla Domenica di Carnevale. Un giorno in cui (sembra) che i defunti vaghino per la città insieme ai vivi, così come nel giorno dei Morti vi è la credenza per cui i defunti tornino dall'aldilà per visitare i luoghi a loro cari in vita.

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sabato 11 aprile 2020

Percezione della morte e sepolture. Il rapporto dell'uomo con la Morte.

La nostra percezione della morte viene a mutare nel corso della storia, in modo lento e quasi impercettibile.
Come siamo arrivati ad una "Pornografia della morte", per come la definiva Gorer, dopo secoli di accettazione e naturalezza dell'evento?

Secondo alcuni storici e sociologi, la concezione di morte nel Medioevo si poteva definire addomesticata: la morte come evento legato ad una sua consapevolezza e serenità  intrinseca, che  l'uomo riconosceva in modo spontaneo. Ne osservava i segni, il cambiamento nel suo corpo e, con questa coscienza, il morente prendeva le proprie posizioni, si seguivano gesti rituali tra cui l'attendere la morte giacendo distesi. 
Se osserviamo le statue giacenti del XII secolo, ritroveremo questa posizione, con le mani ben incrociate sopra al petto. Una naturale consapevolezza della propria morte determinava altresì che il moribondo decidesse in modo chiaro come organizzare la cerimonia pubblica, dove si presenziava liberamente.

Questa tradizione che vedeva la camera dell'ultimo addio sovraffollata è ancora presente nel XIX secolo, dove vi era un forte coinvolgimento dell'intera comunità: parenti, vicini, paesani e anche bambini, ben diversamente dalla congiura che oggi coinvolge la società occidentale in merito al far vedere o meno una salma ad un bambino nel giorno del funerale.
Ritualità che non interpellavano eccessivi turbamenti emotivi.
L'affabilità tra vivi e morti dell'epoca celava, nella sua ritualità, un timore nei confronti di questi ultimi, un timore legato all'eventualità del loro ritorno nella società dei vivi.
La stessa Legge delle Dodici tavole, a Roma, vietava di seppellire in città perché venisse garantita la sanctitas dei viventi e delle loro dimore, proprio per questo riscontriamo diverse testimonianze antiche legate alle sepolture sul margine delle strade, come nel caso della via Appia nella città eterna.

Con il culto dei martiri, e non come spesso si pensa con l'avvento del cristianesimo, i defunti cominceranno ad entrare nelle città, e si riporta infatti che 
"i martiri erano sepolti nelle necropoli extraurbane, comuni ai cristiani e ai pagani. I luoghi venerati dai martiri attirarono a loro volta le sepolture [...]. I martiri ci proteggeranno, noi che viviamo coi nostri corpi, e si prendono cura di noi. Qui ci impediscono di cadere nel peccato [...] Per questo i nostri avi si sono preoccupati di associare i nostri corpi alle ossa dei martiri".

Si testimonia dunque una forte propensione a voler essere sepolti ad sanctos, vicino ai santi. 

E' nel XVIII secolo che ci sarà un fortissimo interesse, legato all'iconografia barocca e macabra, per il culto legato all'esposizione e creazione di decorazioni fatte di ossa, di cui si trovano numerosi esempi, come a Roma presso la chiesa dei Cappuccini, o nella chiesa dell'Orazione e della Morte (qui troviamo anche dei lampadari ornamentali creati esclusivamente con ossa!).


cripta dei cappuccini via veneto
Interno della Cripta dei Cappuccini, a Roma, sottostante alla chiesa di Santa Maria della Concezione.
Foto dal Web.

Ovviamente, si tratta di resti trovati nelle grandi fosse comuni (o "dei poveri") dove trovavano "sepoltura" i meno abbienti, coperti solo dai propri vestiti e dunque senza feretro. Le spoglie dei più abbienti, sovente sepolte entro le chiese (si, proprio sotto le lastre pavimentali!) prima o dopo sarebbero state traslate anch'esse negli ossari comuni. 
E qui un punto fondamentale: tra il XVI ed il XVII secolo, in realtà poco importava la destinazione dei resti del corpo, l'importante è che dimorassero presso le chiese.

In un testo del tardo 1600, troviamo i primi sintomi di un cambiamento, seppur lento, ma in atto: un'insofferenza diffusa legata a millenni di promiscuità tra vivi e morti. Una familiarità con la propria morte che sarà destinata a svanire nei secoli a venire.
Approfondirò in un prossimo post lo stravolgimento della percezione che si sviluppa in merito alla propria morte.



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giovedì 9 aprile 2020

La tradizione funebre in Sicilia.

In questi giorni di clausura forzata e riflessione, mi sono chiesta "ma le ritualità? Che fine hanno fatto? Siamo davvero giunti al termine del loro corso, o si stanno evolvendo?".
I riti funebri antichi mi hanno sempre affascinato, moltissimo.
Ho deciso così di affrontare qualcosa in cui prima, vuoi per il tempo e per mille altre sciocchezze, non avevo potuto curiosare. 
...Un viaggio attraverso le tradizioni funebri regionali in Italia!

La tradizione funebre in Sicilia

Leggendo qua e là, mi sono imbattuta in diversi libri ed articoli in merito a tratti peculiari (chissà se li risconterò anche in altre Regioni!).
Nella Sicilia arcaica e fino a metà dell'800, per i dolenti vi era l'usanza di portare il pane ("'ncrikiet") ai più poveri e, al contempo, i parenti portavano pietanze ai familiari del defunto, secondo l'usanza del "cùnsulu". Altresì, la tradizione prevedeva che alla morte di un congiunto si spegnesse il focolare domestico per una settimana. Fino a poco prima dello scoccare del nuovo millennio, quando qualcuno veniva a morire, dopo la cerimonia funebre i dolenti "tinivanu tri ghiorna di luttu". Per tre lunghi giorni, le porte della casa del defunto rimanevano, giorno e notte, aperte per accogliere tutti coloro che volessero fare visita (lu bisitu") e le condoglianze ai parenti. Donne e uomini venivano accolti in stanze separate e i visitatori, ovviamente di nero vestiti, a questo punto (e secondo le diverse zone della Sicilia), potevano scegliere se rimanere in silenzio o conversare in merito al defunto e alle modalità della sua dipartita. Il periodo del lutto passava per la fase del "mezzu luttu", ovvero il passaggio da una tenuta completamente nera ad un progressivo ritorno ai colori della quotidianità. In realtà, la durata, poteva durare mesi, anni o per tutta la vita a seconda del rapporto che legava al defunto il dolente. Tutta la famiglia, nella sua quotidianità, mutava le proprie abitudini ad esempio vi era il divieto di ascoltare la radio o il grammofono, non si partecipava nè si potevano organizzare feste il non Nemmeno i più piccoli, molto più coinvolti nella ritualità rispetto all'epoca contemporanea, erano esenti dalle tradizioni. In casi particolari però, bastava un semplice fiocco nero per manifestare il lutto.


10 luoghi spaventosi da (non) visitare in Italia | #5 Catacombe ...
Foto trovata sul web, purtroppo non si possono fotografare le aree delle Catacombe
La morte in Occidente ha iniziato a celare, a rendere tale evento un tabù (o come direbbe Gorer..un atto "pornografico") stravolgendo la tradizione legata al culto dei Morti e della cura della stessa salma già nel secondo dopoguerra. L'esposizione del corpo aveva un significato paritetico alla santità e, per le categorie più abbienti, non era raro attuare il processo di mummificazione  creando, per molto tempo, miti legati alla santità delle salme. Basti pensare alle stesse Catacombe dei Cappuccini, dove fino almeno agli anni '30 del '900, trovarono sepoltura anche i resti della nobiltà palermitana, a fianco delle sacre reliquie. In età moderna, alle forme di mummificazione naturale, comparvero i primi metodi chimici legati al processo di imbalsamazione (e qualche archetipo di elementi di tanatoestetica a me tanto cara, come occhi finti, trucco e parrucco). 
La rimozione collettiva dell'evento-Morte coinvolge anche la Sicilia e le sue tradizioni anche in termini igienico-sanitari (la morte viene nascosta agli occhi attraverso la sua reclusione negli ospizi e negli ospedali) e l'impossibilità di essere, dunque, sepolti nelle cripte di Palermo. 
Nelle famiglie più abbienti la salma "era vestita con un pigiama e composta in un lettino come se dormisse. Per loro non vi erano lamentazioni funebri e risaltava un’estrema compostezza nell’atteggiamento dei parenti. La nenia funebre era inventata dai parenti stretti del defunto, normalmente le donne, durante la veglia che si teneva attorno al catafalco. Ciò rientrava nella serie di gesti e operazioni ritualizzate, che la psicanalisi considera come l’arcaica elaborazione del dolore e del lutto fatta a caldo. Attraverso il canto, i parenti dialogavano col morto. Gli parlavano amorevolmente, gli rammentavano le vicende brutte e quelle belle vissute insieme, gli ponevano domande all’apparenza paradossali, lo rimproveravano affettuosamente, lo ringraziavano per la saggezza con cui era vissuto, gli si raccomandavano per il futuro".


                                          


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